Capitolo XIII

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Le lacrime colavano sul volto sporco senza che io provassi nemmeno a fermarle.

Iniziai a gridare: quella stanza mi stava facendo impazzire, quel buio, quel silenzio interrotto soltanto dalla vita fuori dalla grata che continuava a proseguire tranquilla, incurante ed insensibile, che si fermava solo al rumoroso lampeggiare blu e rosso delle sirene della polizia, solo quando una povera ragazzina giaceva a terra, annegata nel suo stesso sangue.

Quante volte ero stata felice, tranquilla, gioiosa e nel mondo succedevano cose terribili? Quante volte il telegiornale lanciava notizie agghiaccianti e io continuavo la mia cena, tranquilla, come se tutto quello non mi riguardasse? Quante Seline e quante Aurore esistevano nel mondo?

I miei pensieri furono d'improvviso interrotti: un martello che batteva sui dei chiodi. Mi voltai e vidi l'ultimo spiraglio di luce sparire. La grata era stata isolata con un po' di gommapiuma, poi coperta con assi di legno. Pensai subito al padrone: non voleva rischiare ancora, non voleva rischiare che qualcun altro mi sentisse e forse era meglio così; nessun altro angelo si sarebbe avvicinato alle porte dell'inferno tanto da bruciarsi le ali.

La precarietà di quella protezione mi fece pensare che il padrone l'aveva architettata di fretta e che ci sarebbe tornato. Il padrone non faceva mai le cose in modo incerto: era un chirurgo del male.

Guardai la pistola che giaceva a terra, immobile. Volevo raggiungerla. Sapevo che prima o poi sarebbe ritornato e io gli avrei sparato.

Era un piano perfetto.

Gattonando, i palmi delle mani sul pavimento sporco e le ginocchia ormai lasciate nude dai jeans rotti che si ammaccavano dolorosamente sul cemento, cercai di raggiungere lentamente l'arma. Le catene si spostavano rumorosamente sul pavimento, il mio viso si contorceva in smorfie di dolore, un rivolo di sudore mi attraversava la fronte. E poi di nuovo. Un senso di impotenza mi pervase unito a rabbia e determinazione. Le catene si bloccarono, avevano raggiunto la loro estensione massima. Ero a terra, sdraiata e con il braccio sinistro cercavo di raggiungere la pistola, le dita si muovevano disperatamente, tentando di allungarsi. Le catene ai polsi iniziarono a farmi male.

Sarebbe dovuto essere un piano perfetto. Ma avevo dimenticato un particolare a cui avevo fatto caso pochi attimi prima: il padrone era un chirurgo del male.

Improvvisamente, mentre le mie dita continuavano a tentare di raggiungere la GAMO, altre dita l'afferrarono e la sollevarono.

Alzai lo sguardo e vidi la maschera del padrone. Crollai al suolo esausta e sconfortata.

«Così avevi deciso di farla finita, eh?» disse beffardo rigirandosi la GAMO tra le mani.
«No... non era me che volevo uccidere» dissi tra i sospiri dell'affanno «Eri tu... Era te che volevo uccidere».
«Tu? Uccidere me? Un piccolo agnellino come te avrebbe impugnato la pistola e sparato?» si abbassò e portò la bocca vicino al mio orecchio, abbassò la voce «Non riusciresti mai a spararmi, ad uccidere un uomo, Seline».

Un fremito violento mi attraversò il corpo. Non doveva chiamarmi per nome.

Mi sollevai di scatto e gli portai le mani al collo afferrandolo per la maglietta.

«Non osare chiamarmi in questo modo! Non chiamarmi mai più per nome!».
«Dimentichi un particolare, Seline... Il padrone qui sono io» mi afferrò le spalle e mi tirò a sé, poi portò la mano destra dietro la mia nuca sporca e lo fece di nuovo: mi baciò.

Non riuscivo a capire come mi sentissi: ero confusa, spaventata da quell'uomo che con una pistola in mano mi baciava con una passione che gli ritenevo impossibile.
Come poteva un uomo del genere trovare la passione nel suo cuore?

Smise di accarezzarmi i capelli e mi spinse all'indietro. Caddi con le spalle sul pavimento, come in croce.

Con un movimento rapido serrò le dita tra le mie, mise la gamba sinistra in mezzo alle mie che erano rimaste piegate, si calò nuovamente e riprese a baciarmi.

Mi lasciò le mani e si fece cingere il collo dalle mie braccia. Glielo lasciai fare. Lo feci.
Iniziò ad accarezzarmi il volto, dolcemente. Glielo lasciai fare. Lo feci.
Portò la mano destra sul mio seno. Glielo lasciai fare. Lo feci.

Si fermò per un istante, e rimase a fissarmi, immobile su di me. Lentamente ritrassi le braccia che avvolgevano il suo collo. Mi guardava attraverso la maschera bianca e inespressiva.

Poi si alzò. Prese la pistola e cacciò il proiettile che c'era dentro. Ora la pistola era vuota. Si cacciò il proiettile in tasca poi rimase lì a guardare la GAMO tra le sue mani per qualche minuto.

«Perché lo hai fatto?» chiesi timorosa.
«Perché ho ascoltato il cuore» rispose, senza guardarmi.
«Allora perché ti sei fermato?».
Trasse un profondo respiro, si voltò e mi guardò attraverso la plastica «Perché ho ascoltato la mente».

Lasciò cadere la pistola ormai scarica sul pavimento e se ne andò.

Nel silenzio della stanza buia mi tornarono in mente le parole di una novella che scrisse Lia.

L'amore nasce, cresce e vive nel cuore.
Ad ognuno il suo ruolo: al cuore l'amore, alla mente la ragione.
Non si ami con la mente e non si ragioni con il cuore.
Quando la mente si mette a giocare con il cuore accadono cose terribili: e i palazzi crolleranno, i fiumi strariperanno, le foreste bruceranno, le grida si alzeranno alte al cielo.
Sembrerà la fine del mondo.
Sarà la fine di un amore.
Sarà la fine del mondo.

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La novella in corsivo, intitolata "Apocalisse", è tratta dalla collezione inedita "Collezione segreta dei canti alla luna" di Gianmarco Salatiello, autore dell'opera stessa.

Il volto del padroneTahanan ng mga kuwento. Tumuklas ngayon