Il viaggio di ritorno non fu dei più allegri. Il cielo era annuvolato, ma non minacciava pioggia. Era quel grigiore costante che trasmetteva una sensazione di stasi. Ed era così che mi sentivo, in una condizione di perenne stasi, oltre che di malinconia.

Mi iniziai a porre una serie di domande, alcune delle quali rimaste senza risposta.

Ti cercai, accanto a me e dentro di me, ma non c'eri. Sentivo di essere io il diretto responsabile della tua felicità negata, anche se pur scervellandomi non riuscivo a definire come.

Sentivo che la tua non era una semplice accusa campata in aria, ma la desolazione che ti pervadeva incessantemente aveva una sola causa: me. Lo vedevo nel tuo sguardo sconsolato, nei movimenti della tua bocca, delle tue mani. Percepivo una richiesta di aiuto, di soccorso, che io con la mia solita passività disattendevo.

Desiderai con tutto me stesso che qualcuno potesse farmi capire dov'è che avevo sbagliato, dov'è che ancora sbagliavo, per causare tutto questo.

E poi mi domandai se la felicità esistesse davvero. Anzi, mi resi conto che la domanda era quella inversa: mi chiedevo se la felicità fosse davvero un'illusione, un utopia, dettata dalla visione ingenua di un bambino. Un bambino che guarda il mondo e lo vede grande, colorato, fatto per essere girato tutto da cima a fondo, e che poi crescendo lo riscopre per quello che è, e cioè una mela rossa fuori e bacata dentro.

Ma quella bambina, anni fa, piangeva. Era triste. Non aveva dipinta negli occhi la stessa voglia di vivere, la spensieratezza, che invece avevano Giulia e Carlo. Era una bambina smarrita, triste, senza una voce e senza un nome, che crescendo era diventata...

Non sono diventata niente, m'interrompesti. Tutt'ora non sono niente, grazie a te.

Rieccoti, seduta di fronte a me al posto finestrino mentre contempli il cielo plumbeo con sguardo pensieroso e leggermente malinconico, proprio come il mio. Ebbi per un secondo l'impressione di stare a guardarmi allo specchio. Notai in te una somiglianza inquietante con me, o almeno con una parte di me sconosciuta e misteriosa di cui avevo sempre avuto sentore ma che mai avevo osato risvegliare. Ormai mi era chiaro che io e te eravamo molto più legati di quanto potessi immaginare: i tuoi desideri, le tue emozioni, le tue espressioni del viso erano speculari alle mie.

Sei per caso la mia anima gemella che a lungo ho cercato? E mi colpevolizzi per non averti mai trovata?, pensai.

In quell'istante mi guardasti negli occhi e abbozzasti un sorriso. Era un sorriso debole, sforzato, che non implicava nessuna sensazione di benessere, bensì di amara constatazione.

Sono molto di più di questo.

Come...?, pensai. Cosa può esserci di più?

Vedi questo treno? Corre a una forte velocità e il suo percorso è per lo più lineare, tranne qualche curva ogni decina di minuti. Quando sei sul treno, hai l'impressione che correrà così per sempre, e difficilmente riesci a concepire l'idea che a un certo punto si fermerà, anche se ne sei consapevole a livello razionale.

Pausa.

La vita è fatta allo stesso modo. Finché la vivi ti illudi che, nel pieno dei tuoi ventiquattro anni, essa sarà sempre così. Ma il corpo non regge le rotaie del tempo. Ad un certo punto si arrugginiranno, e il treno correrà un po' più lentamente per non demolirle, poi sempre più lentamente... più lentamente... finché non sentirai che il capolinea è vicino, e se non sei sceso alla stazione giusta, avrai sprecato i soldi del biglietto.

Cosa stai cercando di dirmi?

Che prima o poi capirai chi sono. La questione è: quando? Quando sarà troppo tardi, quando ti sarai accorto di avermi lasciata indietro quando non dovevi, oppure adesso? Quando, David?

Io voglio capirlo adesso.

Mi osservasti per un momento relativamente lungo, fissandomi dritto negli occhi, come se volessi accertarti che stessi dicendo la verità. Davvero vuoi capirlo ora?, diceva quello sguardo intenso e speranzoso.

Sì, pensai. Pensai anche che non avresti mai potuto dirmelo, ma in qualche modo sapevo che la chiave di tutto eri tu.

In quell'istante ti alzasti e mi porgesti la mano, invitandomi a toccarla con la mia.

Non capivo che significato avesse questo tuo gesto, ma il tuo sguardo era esplicito e inequivocabile: Dammi la mano.

Lì per lì non sapevo cosa fare. Rimasi seduto mentre tu eri in piedi di fronte a me. A un certo punto alzai la mia mano destra tremante con l'intento di toccarti, di scoprire una buona volta se fossi reale oppure frutto della mia immaginazione.

Guardai con attenzione il tuo viso e notai le tue labbra aprirsi leggermente, come se improvvisamente avessi la voce e volessi dire qualcosa di profondo. Le nostre mani devono essersi sfiorate un attimo, ma non di più, perché in quell'istante sentii ciò che definii a me stesso una scossa elettrica, e ritrassi la mano.

Non posso, pensai. Non posso toccare ciò che non esiste.

Mi aspettai di vederti furibonda, malinconica, o semplicemente indifferente. Invece ti vidi per la seconda volta in lacrime, ma questa volta erano lacrime diverse. Sembrava un pianto di gioia, un pianto liberatorio.
Tu sai che esisto, sembravi volermi dire. Non potrai negarlo per sempre.

RitrovartiWhere stories live. Discover now