3. Seppellire un ricordo

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"La morte è inevitabile. Alla fine saremo tutti soli.
Le stelle ci vengono incontro. 
Il tempo scorre.
I fiumi scorrono senza di noi.
Solo la morte è crudelmente certa."
Nosferatu - Il principe della notte


Il cimitero più grande del paese, appena fuori città, ai margini di un boschetto che si disperde fra sentieri e montagne, ha ancora un po' di spazio per seppellirci qualche anima. Nei dintorni, di certo non mancano i luoghi per occultare vecchi esseri viventi ora morenti e silenziosi.

Lazar ha una pala sulla spalla, appoggiata quasi con distrazione, e le chiavi agganciate alla catena dei pantaloni continuano a tintinnare lugubri a quell'ora del mattino. Il sole è sorto da un pezzo, scaldando appena l'aria e rendendola sopportabile. Tracce di brina lasciano luccicare le tombe marmoree che li circondano, ricoprono le statue antiche e i fiori appassiti annegati nell'acqua sporca, che da trasparente ora è melma verde e torbida, quasi radioattiva.

Deya avanza nel silenzio con la scatola stretta fra le braccia, come se proteggesse un fagotto vivo dalle intemperie e dal gelo. Quando arrivano al limitare del cimitero, però, nella parte più profonda e desolata, costellata solo da vecchie bare in disuso, distrutte e vandalizzate, possono fermare i loro passi e scegliere il posto per scavare.

Lazar non le chiede un parere, né un consulto. Prende a farlo come se gli spettasse davvero occuparsene, scava come se ne dipendesse la sua stessa salvezza, e non solo quella di Deya. Sembra essere nato per cancellare prove, per ottenebrare la ragione e rinchiudere la follia sottoterra in modo da non farla emergere, liberarla nell'aria distruggendo vite già malsane. Le braccia danno colpi secchi al terreno che si sfalda, si riduce il polvere e briciole, viene via in un duna tutt'intorno alla fossa di mezzo metro.

Deya ha lasciato a fianco a sé, sul terreno, la scatola. Ora è concentrata a fissare l'altro con estrema inquietudine, è impegnata a trovarlo bellissimo mentre scava e un lieve velo di sudore gli ricopre la fronte. Tutta quella fatica solo per farle un favore, per tirarla fuori dai guai. La fa sentire speciale. La fa tornare normale, una ragazza con delle pulsioni, e non inibita dagli psicofarmaci che tutto reprimono.

«Passami il gatto», le ordina Lazar, piantando la punta della pala nel terriccio, tenendola immobile e verticale, anche se appena inclinata verso sinistra.

Deya esegue, e si sente in colpa poiché non c'è modo di trovare una vera bara piccola – non in un tempo breve, e non ha più voglia di sentire quell'odore ferrigno ancora appiccicato alla pelle.

Lazar lo sistema nella buca senza guardare il contenuto all'interno, senza svuotarlo, senza scoprirne le condizioni pietose; tutto raggrinzito e maciullato, un'amorfa matassa di peli neri e sangue denso, raggrumato.

«Vuoi pronunciare una preghiera, fargli un discorso, o qualcosa del genere?», domanda Lazar, che ha ripreso fra le mani pallide e solcate di vene, dalle nocche screpolate per il freddo, la pala di prima, e ora ricopre la buca scavata e ogni traccia del cartone che rinchiude il gatto e lo condanna al silenzio.

Deya, ferma al suo posto, scuote il capo. «No.»

Nel silenzio, il terreno torna piano, uguale a come quando sono arrivati.

Il cuore di Deya si alleggerisce di un peso, poi viene oppresso da altri dubbi, tagliato dall'angoscia. C'è qualcosa che non va.

Tutto, in realtà. La sua vita si sta crepando in una serie di dubbi e domande, strane circostanze inspiegabili. Ha ucciso il gatto, ma non ricorda di averlo fatto. Ha avuto un rapporto sessuale con Lazar, o qualcosa del genere, ma ne ha smarrito i contorni e non sa fino a che punto si sono spinti. Ricorda il sangue, ricorda il rosa e il rosso, e il risveglio nel bosco inspiegabile. Buchi scavati nella sua mente, come se qualcuno armato di bisturi e forbici le avesse aperto il cranio per prenderne dei pezzi e asportarli via come frammenti marci, carne in putrefazione, solo cibo per larve e non un contenitore di memorie.

E adesso... qualcosa non va. È come se fosse presente un dettaglio grottesco, sfumato, irriconoscibile. Più allunga le mani per coglierlo, e più l'obiettivo si allontana, il suono si alleggerisce.

Un suono, giusto. No, no, un sibilo, un urlo sotto la terra...

Deya strizza le palpebre, come se con lo sforzo mentale potesse guardare sotto i suoi piedi, ma si ripete che è solo una sensazione, una strana allucinazione dovuta alla pesantezza di quegli ultimi giorni, all'alcool ingerito.

Poi, Lazar le pone un quesito curioso: «Lo senti anche tu?»

Deya annuisce, meccanica. Sì, sì che lo sente, allora non è matta, allora non deve ricominciare a prendere le medicine. È sana, non sente le voci.

Graffi contro il legno. Come se il gatto, miagolando e infervorandosi per la sepoltura, stesse cercando di risalire su. Ma Derry non è sepolto nel legno, ed era troppo informe e maciullato per sopravvivere, con tutte le interiora di fuori e una marea di sangue perso.

Lazar scuote il capo, poi lo solleva, e decide di cambiare l'oggetto della sua attenzione. «Il suono del vento, in questo periodo, fa strani scherzi.»

Deya annuisce. Sì, sì, è proprio colpa del vento, non ci sono dubbi. Lazar ha smentito subito le voci, le ha portate a tacere con un pensiero razionale. Non sa nemmeno di esserci riuscito, eppure è come sciroppo per la sua malattia mentale, è come miele su una ferita, è come camomilla in una notte gelida.

«Sei stato gentile ad aiutarmi. Non so come avrei fatto, senza di te», Deya decide di cambiare argomento, in modo da non sembrargli troppo strana. Non deve chiudersi con se stessa e con i suoi pensieri, o finirà in vortici deleteri, e risalire a galla sarà impossibile. Scivolerà nell'acido, e della sua anima non rimarrà niente.

«Tutto ha un prezzo. L'ho fatto per un motivo preciso.»

E con una sola frase è appena riuscito a rovinare tutto, a cancellare l'idillio e anche quel nascente sentimento di condivisione.

Deya sospira. «Già, immaginavo», non è vero, «cosa vuoi in cambio?»

Lazar si avvicina, tagliando la distanza che li divide, accorciandola armato di forbici. Una mano le agguanta un fianco, dita pericolose e polpastrelli letali che stringono la pelle coperta dai vestiti, protetta da un gelo che però è più interno, impossibile da scaldare. Un ghiaccio che non può divenire acqua. L'altra mano fugge sulla tasca posteriore dei pantaloni di Deya, in un gesto che potrebbe apparire malizioso o molesto, e invece si rivela una truffa.

Le ruba il cellulare, tira su lo schermo, scoprendolo sprovvisto di password.

Deya si divincola, tenta di acciuffarlo, ma Lazar lo tiene in alto, clicca sulla cornetta utile ad avviare le telefonate, e digita un numero. Lei si ferma, e confusa lo lascia fare, chiedendosi perché non le abbia chiesto, come una persona normale, il permesso di poter fare una chiamata. 

Innocente, crede che abbia esaurito il credito sulla sua scheda. Comprende di essere fuori strada quando sente una vibrazione provenire da quella parte.

Lazar chiude la chiamata avviata a se stesso, e le restituisce il dispositivo senza farsi pregare.

«Lo riscuoterò fra qualche giorno. Ti scriverò», l'avverte solo ora che è impossibile trattare, protestare, o anche soltanto fare altre domande per estorcergli delle informazioni.

Lazar è impenetrabile, incomprensibile. Solo Dio può sapere cosa gli stia passando per la testa. 

Fame di maleWhere stories live. Discover now