27. Fame di male

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"E non era una stupida, sapeva quel che voleva.
Solamente, voleva delle cose impossibili."
Cesare Pavese


La follia scorre come il fiume quando ha piovuto troppo e rischia di rompere gli argini.

Deya si sveglia, in piena notte, con il corpo inzuppato di sudore e l'incubo ancora vivido e impresso sulle retine, tatuato nella mente con un ago appuntito e rovente.

Si veste in fretta, si sciacqua il viso, guarda l'ora. Sono le quattro del mattino, ma ancora nel cielo non ci sono tracce del sole.

Prende l'auto, guida fino a casa di Lazar. Le strade si susseguono, ma è come un film muto. Non ci sono rumori, solo un fischio tellurico che rimbomba nelle orecchie e distrugge i timpani. Tutto è spento, silente. Un solo e unico ronzio costante in sottofondo, un nido di vespe nascosto nell'ombra. Sul sedile a fianco c'è un coltello da cucina, dopo quel brutto sogno non le sembra proprio il caso di raggiungerlo senza un'arma.

Potrebbe divenire pericoloso, se scoprisse che lei ha capito.

Ora ha tutto senso.

Le ricerche insieme, la sua spasmodica ossessione per le indagini, l'interesse che ha finto di avere.

È lui l'assassino, e sta solo cercando di incasinarla.

Le avrà messo qualcosa nei bicchieri che ha bevuto, e per questo ha dimenticato dei pezzi. Magari, lo fa proprio quando scopre qualcosa di importante, qualcosa che possa incastrarlo.

Non c'è altra soluzione.

Le strade sono desolate, non c'è nessuno a proibirle di correre fino a consumare le ruote del veicolo, fino a mordersi le labbra e sentire il sapore del sangue.

Prende il cellulare, chiama Lazar. Il numero è una macchia sfocata sullo schermo. Suoni monotoni scandiscono i secondi, poi un'interruzione, il segno della cornetta verde trascinata per rispondere.

«Ma sono ancora le quattro», ha la voce impastata dal sonno, eppure la sua chiamata sembra averlo messo in allerta.

«Sono quasi da te. Aprimi»,  non vuole perdersi in chiacchiere futili. In una condizione come quella, un paio di cifre sull'orologio non sono niente, non hanno alcuna importanza.

Riattacca. Non le fornisce risposte.

Deya lo interpreta come un consenso, recupera il coltello e lo nasconde nella tasca centrale della felpa, poi scende dall'auto, chiude lo sportello, un giro di chiave; è meccanica nei gesti, frettolosa.

Raggiunge la porta all'ingresso, le pupille puntate sulla telecamera in alto, proprio sopra di lei. Che senso ha? Perché dovrebbe servirgli, se non avesse niente da nascondere?

Poi Lazar la apre, compare dall'altro lato del legno e si scosta per lasciarle libero il passaggio. Ha l'aria sconvolta dal sonno, occhiaie livide sotto gli occhi come lombrichi oltre le caruncole, zampe di ragno sbucano come ciglia pronte a definire uno sguardo grigio, di gesso violaceo sfumato.

«Che succede di così importante a quest'ora?» sbadiglia, impreparato alla sua follia.

Deya gli si scaglia addosso, gli riversa di fronte tutta la rabbia e la racchiude nella stretta dei pugni sul petto dell'altro; colpi imprevisti, ma non troppo.

Lazar le ferma i polsi appena riesce a ragionare, a risvegliarsi dal torpore. È dura a quell'ora del mattino, quando ancora il mondo dorme e solo gli insonni osano tenere gli occhi aperti.

«Tu mi hai mentito. Mi hai sempre mentito», un'accusa che suona come una condanna, pronunciata da lei. «Sei tu l'assassino, è ovvio. Sei sempre stato tu.»

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