28. Iuri

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"La differenza tra le memorie false e quelle vere è la stessa che per i gioielli: sono sempre quelli falsi che sembrano i più veri, i più brillanti."
Dalì


Lontano nei boschi d'acacia si nasconde la nuova abitazione di Iuri.

Lì l'affitto costa poco, ha trovato una catapecchia in cui vivere per un po' – questo ha detto, e Deya ci crede. L'ha scritto in un messaggio, appena gli ha chiesto dove potesse trovarlo. Deve parlargli con urgenza, e Iuri non sembra sospettare di niente. Dalle parole che ha scritto non tradisce alcun frammento di panico.

Forse la ritiene troppo stupida per poter risolvere quel puzzle senza indizi, dove l'unica mappa da seguire è una serie di ricordi alla rinfusa, sfumati da bicchieri colmi di liquidi dolciastri, e chissà che altro.

A qualche chilometro dal paese, sembra esserci davvero un'abitazione malandata. Da fuori sembra emanare un'aura oscura, un'ombra che s'innalza oltre il cielo, si staglia sul manto blu di una notte che non vuole scorrere, oscurata da un sole che non intende sorgere.

Ci si avvicinano di soppiatto, quasi in silenzio religioso, con lo stomaco aggrovigliato dalla paura, con le viscere che formano un ginepraio. Bussano alla porta di casa, ma non giunge loro nessuna risposta. Solo un silenzio torbido e inquietante. Neppure uno spiffero di vento ora muove l'aria, tutto è rarefatto, quasi un sogno come un altro, quasi il preludio del risveglio.

«Iuri?», Deya prova a chiamarlo. «Sono Deya, posso entrare?»

La porta è socchiusa, un invito a infiltrarsi oltre le vecchie pareti grigie e scrostate. Le finestre sono sporche e le tende chiuse fino a impedire la visuale di qualunque scenario al suo interno, e ciò è preoccupante. 

Solo dei coltelli, nient'altro. Sono le uniche armi che possiedono per difendersi dalla minaccia. Nascosti, pronti a sorprendere, eppure la convinzione di essersi cacciati in un bel guaio non accenna ad andarsene.

Non basterebbero contro dei proiettili.

Ci ha già pensato. Lazar dice che non si è mai accennato all'uso di armi da fuoco negli omicidi. È qualcosa di sadico, di cruento. È un giocare di armi bianche e di tagli, di arti amputati e corpi fatti a pezzi. Qualcosa di maschile, di sicuro. Gli studi dicono che le donne non usano i coltelli, ma i veleni. Le donne pagano gli altri, non si sporcano le mani. 

Quella storia è un'esplosione di sangue e di organi.

Deya dà un piccolo calcio alla porta, spaventata da ciò che troverà all'interno, timorosa di beccarsi comunque un proiettile in fronte e una fine istantanea.

Dentro, però, non c'è movimento. Un corridoio buio e altrettanto silente, tutto è sporco ed è impensabile l'idea di viverci, ogni cosa sembra malmessa. Si guardano intorno, cercano l'interruttore della luce con le torce dei cellulari ora accese, prima di procedere con un altro passo nel buio. Mancano diversi mobili, l'ambiente è fetido, lercio. Un'immensa busta della spazzatura, una discarica fra qualche mura abitata da ragnatele e polvere più che da umani.

Poi, un solo rumore interrompe il silenzio assordante, lo scricchiolio di un'asse di legno deforme, divorata da insetti e muffe informi.

«State fermi o vi faccio saltare la testa», una profezia di morte diffusa da una voce femminile – e fin troppo conosciuta.

Iuri non c'entra niente. 

«Alzate le mani sopra la testa.»

Li ha presi alle spalle, e ora sono pietrificati dalla paura, e con una voglia infinita di voltarsi e vedere che il sospetto che graffia sottopelle è proprio lì, dinanzi alle palpebre turbate da una verità celata con così tanta attenzione, e che ora si rivela con il fragore di una coltellata fra le viscere su un corpo ancora vivo.

Fame di maleWhere stories live. Discover now