Capitolo XIII

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Entro nell'ufficio di Connor e mi libero finalmente della mia giacca sudicia e sporca di caffè. La giornata non poteva che iniziare nel peggiore dei modi. Il mio capo mi fa cenno di accomodarmi alla poltrona grigia posta  nell'angolo adibito a salotto dell'ufficio, mentre lui si posizione diritto difronte a me.

Mi adagio sulla poltrona rassegnata all'inevitabile confronto, dopo giorni passati a chiudergli in faccia il telefono.

«Perché non rispondi al cellulare?» mi chiede, senza particolari preamboli.

«Ti ho detto come stanno le cose tra di noi, Connor. Non se ne fa niente»

Connor si sporge in avanti e aggrotta la fronte: «Non se ne fa niente di cosa?» 

«Di... noi»

«E chi ti ha detto che ti stavo cercando solo per parlare di noi?»

«Mi prendi in giro?»

«Pensi che io non sappia accettare un rifiuto da parte di una donna? Mi hai preso per uno stalker?» rincara la dose, facendomi sprofondare nell'imbarazzo.

«Non volevo dire...»

«Sei anche una mia dipendente, Olivia. Non ti è mai passato di mente che io ti stessi cercando per una questione di lavoro? Sono il tuo capo prima di tutto»

Connor mi rimette al mio posto, tracciando un confine netto tra ciò che è lui e ciò che sono io: lui è il capo, io sono una semplice dipendente. Non so come articolare la mia difesa, le parole mi muoiono in bocca. Di tutte le cose che pensavo volesse chiedermi con tanta insistenza, le ultime alle quali ho pensato erano le questioni lavorative.

Mi ha cercato tutto il weekend per una cosa di lavoro? Poco credibile o semplicemente urgente?

«E cos'è che volevi?» decido di tagliare corto io.

«Era una cosa che richiedeva una certa sollecitudine, altrimenti non avrei insistito»

Mi agito sulla poltrona, a disagio, mentre lui riprende a parlare: «I contratti per il catering per la festa di gala di mercoledì sera andavano firmati entro oggi e tu eri l'unica a possederne le copie»

É vero. Quei contratti andavano firmati entro oggi e io me ne sono totalmente dimenticata a causa del burrascoso fine settimana appena trascorso.

«Ah» è l'unico monosillabo che mi esce di bocca.

«Ho risolto. Ci ha pensato Delilah ieri sera. Li ha completamente riscritti»

«Mi dispiace, Connor»

«Signor Pence» mi corregge lui.

Il suo modo di trattarmi mi ferisce ma non voglio darlo a vedere: «Allora, posso andare?» rispondo risoluta alzandomi dalla poltrona. Mi liscio con le mani la gonna mentre il silenzio che è appena calato tra di noi si protrae per diversi secondi, divenendo imbarazzante.

Connor, o meglio, il Signor Pence sembra assorto nei suoi pensieri. Non considera il mondo e lo spazio attorno a sé: si è portato una mano al mento e guarda fuori dalla vetrata del suo ufficio. Deglutisco rumorosamente, per attirare la sua attenzione, e distoglie finalmente lo sguardo dal panorama esterno per riportarlo su di me. I suoi occhi mi mi scrutano intensamente per qualche istante, come se si stesse arrovellando su una questione di vita o di morte.

«Quindi ci sarai al ricevimento di mercoledì sera?» Mi domanda dal nulla.

«Non lo so»

Come infastidito dalla mia dalla mia riluttanza, aggrotta le sopracciglia: «Perché?»

OLIVIA Where stories live. Discover now