Capitolo XVIII

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L'eccesso di informazioni mi provoca un mancamento: saranno state le ore rinchiuse in quella stanza, lo stordimento da cloroformio o il fatto che non ho nulla nello stomaco da ore. Sono in sovraccarico, come se stessi andando in contro circuito. Boom, mi sono rotta.

La voce che urla il mio nome allarmata mi riscuote appena: «Olivia!»

Maurice mi avvicina una sedia tirandomi delicatamente per i polsi e invitandomi a sedere: «Va tutto bene, sei al sicuro. Portatele qualcosa da mettere sotto i denti»

Connor non se lo lascia ripetere due volte e fa per aprire la porta, ma lo fermo supplicante: «Voglio solo andare a casa»

«Mandiamola a riposare in Centrale. Non possiamo tenerla ancora qui sotto, è inumano»

«Sono d'accordo» si aggrega Micheal, alzandosi dalla scrivania e avvicinandosi a me: «Le possiamo spiegare tutto tra qualche ora, quando si sarà ripresa»

«Te la senti, mon chèri?» mi domanda, rendendomi partecipe al loro scambio di idee.

Apro la bocca, come per dire qualcosa, ma l'immensa mole di domande che mi martella nella testa m'impedisce di formulare una risposta di senso compiuto. Mi escono dalla bocca solo suoni confusi, monosillabi incomprensibili.

«È confusa...»

«Sto-sto bene» riesco a dire appena.

Michael si avvicina un po' di più per studiarmi meglio, corrugando la fronte preoccupato: «Allora andiamo? Possiamo rimandare la conversazione a domani. Avrai tutte le risposte che vuoi, te lo prometto»

Faccio cenno di sì con la teste e usciamo dalla stanza, lasciandoci dietro Maurice e Connor che congedano il finto-copywriter con una pacca d'incoraggiamento sulla spalla. Si fidano di lui: farà la cosa giusta, userà i toni più opportuni. Sperano sia lui a portarmi dalla loro parte, a convincermi del tutto. Nei loro occhi leggo questa convinzione.

Attraverso nuovamente corridoi labirintici, prima di arrivare all'ascensore. Michael preme il tasto "123" e la cabina ci solleva velocemente in alto. Dalle porte in vetro scuro il panorama cambia in maniera repentina. Le pareti grigie e anonime del piano in cui ci trovavamo prima, lasciano il posto a mura bianche e luminose intervallate da ampie vetrate. Il nuovo ambiente assomiglia contemporaneamente ad un ufficio, alla hall di un albergo ultramoderno e ad un campus universitario. E siamo in alto, molto in alto.

«Dove ci troviamo?» domando, mentre mi guardo attorno stupita.

«Siamo in Centrale. Ti presento il cuore pulsante del Quartiere Generale dei Servizi Segreti» esclama lui, mentre le porte dell'ascensore si aprono rivelando un salone ovale dai pavimenti in marmo bianco decorati da sottili venature nere.

Michael mi fa strada, conducendomi verso l'uscita di questo salone d'ingresso candido: «È qui che viviamo. Ognuno di noi ha la sua stanza. C'è persino una mensa comune e, sempre qui, svolgiamo riunioni e indagini»

Parla con fare disinvolto, come se fosse una guida turistica del Louvre che spiega per la centesima volta ai turisti il mistero del sorriso enigmatico della Gioconda.

«Dov'eravamo prima?» chiedo curiosa. Tutto ciò è strano, confuso e perverso ma anche dannatamente accattivante.

«Il Piano Zero lo usiamo prevalentemente per interrogare i civili, pochissimi di loro hanno accesso alla Centrale. Sei tra i pochi fortunati» risponde in maniera ironica.

Vorrei tanto ribattere che sarebbero altre le fortune che vorrei aver avuto nella vita, ma preferisco sorvolare. «Quanto in alto siamo?» continuo a martellarlo di domande, specialmente quando noto il vuoto che si estende sotto di noi, sbirciando fuori dalle vetrate del corridoio.

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