Paziente stanza 5

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Pov's Caspian Davide Mateo Gonzalez

- Chiamiamo mostro solo chi ha qualche cicatrice in più per colpa della vita. -

La mia cartella psichiatrica fa paura, è grazie a lei se adesso vengo considerato incurabile.

Bipolarismo, sociopatia, disturbo ossessivo-compulsivo con sintomi psicotici, allucinazioni, dipendenza dal tabacco e disturbo istrionico di personalità.

Devo dire, quest'ultimo mi lascia perplesso.

Io non mi attacco morbosamente alla prima persona che mi parla gentilmente o che mi sorride, anzi, sono tutto il contrario.

Dicono che io ero legato a loro, ed essendo morte, ne soffro particolarmente. Le cerco e non trovandole, impazzisco.

Ma io è da tempo ormai che ho smesso di cercarle.

Sono morte per colpa mia.

Vi pare che le cerco ancora?

Spazzo via questi pensieri che non mi lasciano mai, e fisso il soffitto bianco che mi si palesa davanti.

Bianco, bianco. Non c'è lui di solito.

Sto steso sul letto, avvolto come un salame in questa camicia di forza del cazzo, a contare le crepe e le mosche che girano per la mia cella.

Bianco, bianco.

Risate sincere, pacche sulle spalle, frecciatine.

Quello che non mi ricordo di aver vissuto.

E le guardie fuori continuano a spassarsela incuranti di noi, poveri pazzi, che stiamo qui ad ascoltarli con la malinconia impregnata nel petto arido.

Bianco, bianco. Non c'è pace.

Sempre chiaro, bello e luminoso questo colore, forse un po' ingiallito ma irradia gioia lo stesso.

Quella che io non sarò mai destinato a provare.

Tutto bianco, troppo bianco.

Con una botta di reni mi alzo in piedi, a dir poco furibondo.

Sbatto il busto sulle sbarre, il rumore che provoco rimbomba tra queste pareti.

Ancora bianco, dappertutto bianco.

Ringhi animaleschi che lasciano la mia gola, e mostro anche i denti.

"Sta cazzo di cella è troppo bianca! La voglio nera!" La mia sfuriata fa saltare sulla sedia le guardie, tanta è la loro paura.

"Avete capito?! Troppo bianca, stronzi!" Premo la fronte sul ferro scorticato dalla vernice chiara.

Si agitano, parlottano, chiamano chissà chi. Ma capisco quando digitano il numero del direttore sui tasti del telefono fisso.

Bip, biip, bib, pib, biib, bip, piip, bib, piib.

Il suono della tastiera arriva alle mie orecchie, ormai me la sono imparata a memoria di quante volte l'ho fatto venire qui.

Ci mando lui al manicomio, altro che noi poveri pazzi.

Infatti dopo qualche minuto, i passi pesanti e odiosi di quel grassone riecheggiano nel mio corridoio.

García è il direttore di questo posto dimenticato da Dio, grasso come un ippopotamo incinta e brutto, più brutto della fame.

I capelli grigi sempre tirati indietro con la gelatina, a mo' 'leccata di mucca'.

Gli occhietti piccoli, come fessure, si aprono a fatica tra tutta quella ciccia.

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