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Il primo giorno di indagini si concluse con due soli interrogatori e molto sangue sul pavimento, non della vittima, ma di Jason. Il detective infatti, incuriosito dalla storia dell'ascensore decise di aprire le due lamine e di analizzare il possibile passaggio secondario, ma oltre a restare deluso alla vista di fili e parti metalliche penzolanti, si tagliò la mano vicino una di esse.

Ricordo che iniziò ad uscire molto sangue e che con una fascia arrotolata intorno alla mano corse in ospedale lasciandosi alle spalle una scia di goccioline rosse. Non avevo mai visto una ferita del genere: il taglio sembrava molto profondo; tutti tememmo il peggio visto lo strato di ruggine che ricopriva quei pezzi di metallo.

Il sangue non mi è mai veramente piaciuto. Da sempre ha avuto una strana presa su di me, come una gigantesca pinza che mi stringe l'intestino.

Anche quel giorno mi fece lo stesso effetto e corsi in bagno a vomitare insieme ad altri "stomaci deboli" come me; forse è per questo che nessuno aveva mai fatto il mio nome: la mia reazione naturale mi aveva fornito involontariamente un alibi di ferro, o almeno così ho sempre pensato.

Non ho mai avuto paura di nulla, neanche degli aghi, ma il sangue è sempre stata tutt'altra storia: lo odio, mi inorridisce.

Ricordo infatti che, quando ferii miss Kane, scappai via alla vista del sangue. Sicuramente fuggii dalla scena del crimine e dai miei sensi di colpa, ma soprattutto perché l'effetto che mi face il sangue in quegli attimi fu sicuramente maggiore dell'odio che mi animava e infiammava.

Vedere un corpo disteso a terra implorarti di aiutarlo con le sue mani femminili sporche di sangue, è una di quelle scene che non puoi dimenticare. Una volta impressa nella tua mente, sai che ti verrà a trovare ogni qualvolta avrai abbassato la guardia concedendoti un piccolo attimo di felicità, o almeno è così che succede a me da tanti anni.

Forse sono debole e per questo che lascio il mio subconscio mi punisca, ma non credo si esserlo estremamente. Nel quartiere dove ho vissuto per ben tredici anni, molte persone si suicidavano schiacciate dal rimorso e dai sensi di colpa, ma quest'idea non ha mai sfiorato la mia mente. Ho sempre preferito affrontare questo lato di me, anche se sono stato quasi sempre alle corde: cazzotto dopo cazzotto, scontavo la mia punizione.

Punizione che già iniziavo a maturare quella sera stessa nella mia camera d'albergo.

Per evitare fughe di notizie, ci fu proibito di lasciare la struttura e ad ognuno di noi fu assegnata una stanza da condividere con un agente di polizia.

Non venne rispettato nessun criterio in base al sesso: gli agenti furono estratti a sorte, ma ricordo benissimo che fossero principalmente le poliziotte ad essere più ambite da tutti.

La mia compagna di stanza, Roxene, appena ventitreenne ma armata già fino al collo, fu una sorta di benedizione: l'unica persona con cui inconsciamente il mio essere si è confidato. Non ho mai capito se avesse compreso che condivideva la stanza con la persona che stavano cercando, o semplicemente mi scambiò per l'ennesima vittima psicologica di un crimine. Ma in quelle notti insieme passate a parlare del più e del meno, le confidai molte cose, anche troppe.

MisSageWhere stories live. Discover now