Cinque

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Diramiamo un messaggio d'allarme dalla radio della macchina.

«Non vuole farci andare a Dayton» dice Meadows. «Secondo me non è una coincidenza.»

Lo avevo pensato anch'io. «Ci ha lasciato il furgone e spera che lo inseguiamo.»

«E tu invece prosegui per Dayton, Jimmy. E vai anche a implorare aiuto, prima che quell'esaltato ci ammazzi tutti. Io resto qui e perdo il mio tempo dietro a quel folle.»

***

La grande città mi rassicura.

La sua sensazione di anonimato offre, stranamente, anche un vago senso di protezione. Gli alti grattacieli, le strade trafficate, negozi e rumori: avevo quasi dimenticato tutto questo.

Le miniere, prima, e i federali poi. Perché ho la sensazione che il segreto del mistero sia davvero lì, in quelle carte, e perché vorrei avere tutti gli elementi in mano, prima di delegare l'indagine ad altri.

Senza la guida esperta di Meadows, che conosce abbastanza bene Dayton, impiego quasi un'ora a trovare gli uffici della società delle miniere.

Vengo fatto accomodare in uno studio piccolo e spoglio. Devo attendere almeno venti minuti prima che l'uomo con cui ho parlato al telefono si degni di comparire alla mia presenza.

«Le ho fatto preparare tutti i documenti che aveva chiesto» mi dice, appoggiandomi davanti una cartellina talmente sottile da farmi immediatamente dubitare delle sue parole.

«Tutto qui?» chiedo, non nascondendo un'aria dubbiosa.

«Oh, sceriffo, negli anni Trenta gli incidenti nei pozzi erano molto comuni.»

Non ha intenzione di lasciarmi solo. Si siede di fronte a me e mi osserva mentre sfoglio le carte che mi ha portato.

«Questi sono gli incartamenti originali?» domando.

Lui annuisce. «Certo.»

La carta è bianchissima e profuma ancora di ciclostile.

E il rapporto – se posso chiamarlo così – contiene solo i dati essenziali. La registrazione della chiamata d'allarme effettuata da Red Creek al mattino, l'uscita dei mezzi di soccorso, l'arrivo e la messa in opera di diverse strategie di salvataggio.

È vero, purtroppo: una volta, gli incidenti in miniera erano banalmente comuni. Privi delle più elementari strutture di sicurezza – spesso, i minatori non disponevano che di alcuni canarini in gabbia per segnalare l'eventuale presenza di grisù – e costruiti su basi fatiscenti, i pozzi non avevano alcuna possibilità di resistere alla minima perdita di gas o a un incendio.

E il pozzo Nord non aveva fatto eccezione. Un'esplosione, sviluppatasi a seguito dell'incendio, aveva devastato l'uscita, chiudendo in trappola quasi sessanta minatori. Le squadre di soccorso avevano dovuto scavare a mani nude per cercare di liberare l'ingresso; due soccorritori erano morti per il fumo inalato durante le prime ricognizioni.

Soltanto ventisei ore dopo l'incidente, quando ormai le ricerche di superstiti stavano per concludersi, in uno dei locali destinati alle emergenze erano stati ritrovati sei sopravvissuti, due dei quali con ustioni gravissime. Tre nomi mi sono ignoti – Beauregard, D'Addario, Keale, nomi di persone evidentemente fuggite da Red Creek; gli altri, invece, sono quelli che già conosco.

«Non c'è altro?» chiedo.

«No, le ho consegnato tutto.»

«Non c'è stata un'inchiesta interna per scoprire come fossero andate le cose?»

«L'inchiesta non ha dato risultati. Non è stato possibile appurare chi fosse stato il colpevole. Il processo si è concluso con la completa assoluzione della nostra compagnia, grazie anche alle testimonianze favorevoli di tre dei superstiti. Per quanto ci riguarda, l'incidente è stato soltanto una tragica fatalità.»

«Tre dei superstiti?» domando, colpito.

«Ho riguardato gli incartamenti processuali – sa, sono documenti assolutamente riservati – proprio prima che lei arrivasse. Sì. Ben tre dei sei superstiti hanno dichiarato di non poter incolpare la nostra compagnia per quanto avvenuto.»

«E gli altri tre?»

«Due erano ancora irreperibili perché in convalescenza, sceriffo. L'altro, probabilmente, era in stato di shock, o forse non aveva avuto modo di vedere alcunché.»

«Si è segnato i nomi?»

«No, mi dispiace.»

***

Esco dall'ufficio con la sensazione di aver fatto un completo buco nell'acqua, o qualcosa di simile. Ero convinto, davvero convinto, che avrei trovato il bandolo della matassa, che sarei riuscito a risolvere il mistero. O una traccia consistente, almeno.

Scendo le scale in fretta, arrivo nella spaziosa hall. Ha ricominciato a piovere. Mi scappa un'imprecazione frettolosa.

Devo chiamare Meadows, devo sapere come procedono le ricerche, se hanno preso il pazzo, se la pioggia è anche lì e se ha portato qualcosa allo scoperto.
C'è una cabina telefonica proprio all'ingresso. Mi avvicino e infilo nella fessura un paio di monete.

«Con chi desidera essere messo in contatto?» chiede la telefonista.

«Con l'ufficio dello sceriffo di Red Creek, Ohio.»

«Una chiamata interurbana. La metto subito in linea.»

Sono costretto ad attendere, scostando la cornetta dall'orecchio per non ascoltare gli inevitabili fruscii di sottofondo.

Vedo un uomo sui quaranta entrare nella hall, accolto calorosamente dalla segretaria.

«Salve, signor Beauregard.»

E quel cognome mi colpisce, mi colpisce in pieno.

«Pronto? Qui parla il vicesceriffo Meadows» dice la voce del mio collega, dall'altro capo dell'apparecchio.

Non gli rispondo nemmeno. Chiudo con un gesto brusco la conversazione e rivolgo tutta la mia attenzione al signor Beauregard.

Abe BarberDove le storie prendono vita. Scoprilo ora