Capitolo 03

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Vi è mai capitato di guardare fisso in un punto, nel vuoto, e di perdervi nei pensieri?

Se foste qui, in questo momento, è così che mi trovereste: con gli occhi puntati s'uno spazio indefinito, dentro il monitor del PC.

Non sono sicuro di quello che mi passa per la mente, sempre che qualcosa stia passando, ma ho l’impressione di galleggiare, di fluttuare alla deriva in un mare inconsistente, completamente perso. Senza bussola, senza riferimenti. Senza una destinazione o una strada da seguire.
E non sono nemmeno sicuro di sapere da quanto tempo sto così, in questo stato di catatonia. Probabilmente da ore perché fuori è notte.

La sedia mi getta in piedi e un intorpidimento generale mi sconvolge ogni fibra del corpo. La osservo girare tre volte su se stessa, per la velocità con la quale sono scattato.

I passi che faccio, per raggiungere la cucina, mi costano cari. È come camminare s'un tappeto di spilli. E più riprende la circolazione, più il dolore s'acuisce. Devo fermarmi nel disimpegno, poggiando un braccio contro il muro, in attesa di ritrovarmi.

Buio informe e avvolgente misto a silenzio sbriciolato, attorno a me.

Dal ticchettio dell’orologio a parete, sulla striscia di muro laterale che separa la camera degli ospiti dal bagno patronale.

E da un respiro.
Pesante, costante. Che scandisce il tempo meglio di quell'orologio.

Laura dorme. È suo quel respiro e, a giudicare dalla profondità e dall'intonazione, dorme già da un po’.

Mi lascio guidare dalle piccole lucine rosse del sistema d'antifurto volumetrico. Conoscendone la posizione, riesco a orientarmi perfettamente in casa, anche in totale assenza di luce. Interna o esterna che sia.

Oltrepasso la soglia del piccolo corridoio che separa il disimpegno dall'ingresso-soggiorno e poi quella più ampia della cucina. Tasto la parete sulla sinistra in cerca dell'interruttore.
Accendo.
Copro gli occhi istintivamente, abbagliato dalla potenza del globo appeso al soffitto.

La tavola è ancora apparecchiata. Piatto, bicchiere e posate, nel quarto di cerchio in cui sono solito sistemarmi. Un biglietto scritto a mano. Calligrafia marcata e squadrata. Ma chiara, però.

La cena è nel forno. Scaldala per quindici minuti, ti ho impostato la temperatura. Non fare troppo tardi, che domani lavori.

Faccio ruotare la manopola del timer, la tenue lampadina del forno illumina una teglia con dentro una specie di rotolo di pollo avvolto nella pasta sfoglia. Le chiesi di prepararlo tre giorni fa ma mi rispose che non le andava e che avrebbe preparato altro. Lo ha fatto stasera, proprio stasera che ho saltato la cena.

Certe volte il karma è beffardo e non so se si diverte di più ad accanirsi contro di me o contro di lei...

Il timer del forno trilla. Nel silenzio sembra di avercelo nel cervello.

Una porzione generosa, quella che trasferisco dalla teglia. Troppo generosa. Un semplice assaggio basterebbe, non ho appetito.

Mangio per senso del dovere. Per colpa. E so che quella sensazione non la digerirò facilmente, un assaggio non basta affatto.

Mi sento un po' stronzo.
E la cosa che mi fa sentire peggio non è l'aver saltato la cena. Tantomeno il pensiero della possibile delusione che avrà provato Laura, dopo essersi data da fare per accontentarmi, nonostante il ritardo di tre giorni.

Sempre ammesso che l'abbia provata davvero...

Il problema fondamentale è che la parte migliore di me sta ancora pensando a lei.

A MissAndersonCouncil.
Anzi... a Marlena.

Mastico.
Pollo e sfoglia con i denti.
Curiosità e domande con il cervello.

Perché è fuggita così? Chi è? Com'è fatta? Quanto dovrò aspettare prima di poterci parlare ancora?
E, soprattutto, perché mi sento così? Colpevole di non sentirmi colpevole?

È strano da spiegare.
Conosco Laura praticamente da sempre. Siamo cresciuti insieme, inseparabili fin da ragazzini. Credo che lo stare sempre e soltanto con lei abbia creato una specie di barriera tra me e il mondo esterno. E per mondo esterno intendo le altre donne. Non le ho mai notate e non mi sono mai sentito notare da loro. E non ne ho mai neanche sentito il bisogno.

È come se in lei avessi trovato sin da subito una profonda completezza. Come se lei da sola sarebbe bastata per sempre a saziare tutti i miei appetiti, sia quelli contingenti che quelli futuri.
Tutte le ragazze, poi donne, poi colleghe o amiche o sconosciute passanti, incontrate lungo la strada della vita, mi sono sempre sembrate entità asessuate.

Lei era una vera amica. Lei era complice. Era confidente. Amante.
Tutto in un equilibrio unico.
Perfetto.

Pensavo fosse lei, la risposta.
Pensavo di aver trovato tutta la felicità possibile.

Parlo al passato perché ora non è più così. La giostra col tempo ha iniziato a rallentare. Le discese a perdifiato sono diventate un lento trascinarsi, i voli acrobatici semplici derive allo sbando, il rotolare sulle rive del mare un mortale arenarsi.

E l'ansia d'incontrarci, di vederci, di toccarci è diventata soltanto abitudine e noia. E le nostre infinite chiacchierate sostituite solo dal silenzio di chi non ha più nulla da dirsi.

Forse la felicità, come l'equilibrio perfetto, non esiste. Forse è tutta una questione di oscillazioni e contrappesi.
Probabilmente è così. Probabilmente è tutto un movimento sinusoidale, sopra e sotto l'asse della quiete.

Lei, MissAndersonCouncil, è come se avesse alterato l'equazione. E io, inconsapevolmente, gliel'ho lasciato fare.

La verità è che tutto questo mi spaventa. E allo stesso tempo mi eccita. E nononostante non riesca nemmeno a immaginare le possibili conseguenze di questa variazione, ho voglia di continuare a seguire la luce in fondo al tunnel.

Potrei darmi tutti i maledetti buoni consigli del mondo, ma so già che non li ascolterei. La tana del bianconiglio è troppo allettante e io sono andato troppo a fondo per tornare indietro.

Ormai mi sento così.
Perso.
Maledettamente perso.
Eppure...
Così piacevolmente... perso.

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