21. L'affetto selvatico del puma

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Non c'erano orologi nella sua camera. Il concetto stesso del tempo non aveva posto nell'ospedale, dove tutti dovevano scordarsi che la vita era una corsa contro il tempo, che ogni istante, ogni attimo, passava, e il ticchettio delle lancette lo scandiva dando la base per una danza muta.

Cherry sapeva solo che era notte fonda quando sgattaiolò fuori dalla porta della sua camera, stringendosi addosso il cappotto bianco. Teneva le scarpe in mano perché i suoi piedi non facessero il minimo rumore: lasciò la porta socchiusa e scivolò lungo i corridoi dell'ospedale come un fantasma.

Aveva pianto tutte le sue lacrime, ed ora si sentiva svuotata, ma non stanca. Come se avrebbe potuto sopravvivere senza provare più nessun sentimento in vita sua, anche se sentiva sul viso le tracce ormai secche delle lacrime che aveva versato, e la morsa ormai lenta che le aveva stretto la gola mentre lo faceva. Aveva assicurato alla dottoressa che sarebbe tornata a dormire, finto di farlo, aspettato per un tempo che le era parso infinito prima di attingere ai vestiti che le erano stati portati per prepararsi. Doveva sapere come stavano veramente le cose, vedere coi suoi occhi cosa le era rimasto.

Il silenzio non era assoluto, ma era denso, composto di tanti non-rumori, suoni che venivano da ogni parte dell'ospedale arrivando al suo orecchio slavati e fusi in un unico grande respiro che colmava l'aria: il ronzio lontano del frigo, il respiro dei residenti, l'acqua nelle tubature, gli elettrodomestici spenti, gli animali che vivevano nei sotterranei e nel tetto. Uno di questi non-rumori era il respiro di Cherry, che la teneva stabile e concentrata nel presente: le sue lancette dell'orologio.

Rimase immobile, appoggiandosi con la schiena a parete. Un uomo in maniche di camicia stava camminando con una torcia accesa in mano, scandagliando pigramente i corridoi; i tacchi bassi delle sue scarpe di pelle schioccavano contro il pavimento, scandendo il suo passo pesante.

Il suo volto era illuminato fiocamente dal cono di luce bianco che usciva dalla sua torcia, delineandone il profilo: labbra sottili, naso da pugile, occhi semi-chiusi in un'espressione stanca.

Cherry uscì allo scoperto, silenziosa, dirigendosi verso di lui con passo da cacciatrice.

Lui la notò. «Signorina. È tardi, cosa ci fa qui di notte? Sta bene?» Chiese, la voce ruvida; puntò la torcia in direzione dei suoi piedi, illuminandola senza accecarla.

Cherry fece due passi avanti, catturando i suoi occhi e la sua volontà con la voce:

«Shhh. Non voglio che tu faccia rumore» sussurrò, in tono suadente. L'uomo batté le palpebre un paio di volte, aggrottando le sopracciglia come se stesse cercando di ricordare qualcosa che aveva dimenticato. Alla fine i suoi occhi si illanguidirono e lui fece un cenno affermativo con la testa, sembrando incredibilmente stanco.

«Tu non sai chi sono» Proseguì Cherry, compiendo un altro passo verso di lui «E non ti interessa saperlo. Sei così disinteressato a saperlo che, quando te lo dirò, ti dimenticherai di avermi incontrato nel turno di stanotte. Annuisci se hai capito».

L'uomo annuì.

«Dimmi il tuo nome» Ordinò la ragazza con le lentiggini

«Tom» disse lui a fior di labbra, e lei sentì un'improvvisa, sgradita stretta al cuore

«Perché stai facendo la guardia, Tom? Dimmelo»

«Non vogliamo che entri qualcuno, ci sono tante persone che devono guarire. Non vogliamo neanche che scappino» balbettò lui. Anche ora che era già stato ipnotizzato, nonostante l'aria assente, manteneva l'espressione concentrata di prima. «Potrebbero farsi del male. Far del male agli altri...»

«Va bene. È una buona idea accompagnarmi fino alla portone d'uscita, Tom. Andiamo» La ragazza gli offrì il braccio e lui lo fissò stupidamente, prima di incrociare il proprio braccio a quello della ragazza ed iniziare a camminare.

Shadowfawn - La Ragazza IpnoticaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora