Odore di casa

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Il volo verso Venezia durò circa due ore. Eravamo partiti alle 22.15, arrivando a destinazione poco dopo mezzanotte. Il primo aereo per Roma partiva alle 5.00 del mattino, quindi restai in aeroporto ad attendere di ripartire. Ogni tanto gettavo uno sguardo al cellulare, forse speravo in un altro messaggio di Ernandez, ma non ce ne furono. L'unico a farmi compagnia per un paio d'ore fu Mattia, preoccupato del mio mancato ritorno a casa, ma felice del termine della sua sospensione. Sarebbe rientrato per il gran premio del Mugello ed era praticamente su di giri come se quello fosse stato il suo primo giorno lavorativo.

Alle 7.30, finalmente, dopo quasi dodici ore di vagabondaggio partito dalla Francia, ero sotto casa di mio padre, il quale, proprio nell'istante in cui io ero scesa dal taxi, stava lasciando la casa per andare al lavoro.

-Dafne! Sei venuta davvero! Non dovevi precipitarti! - esclamò, venendomi incontro.

Mi abbracciò forte, conficcandomi i folti baffi nel collo. Quel contatto mi fece comprendere quanto gli fossi mancata e quanto lui fosse mancato a me. Erano almeno sei mesi che ci vedevamo solo in videochiamata e i nostri dialoghi erano sempre molto brevi, né io né lui godevamo di grande loquacità. Aveva proprio bisogno della mia presenza.

-Quanto puoi restare? - chiese, lasciando la stretta.

-Riparto alle 18.00 di domani sera, mercoledì devo rientrare al lavoro, ma se c'è qualche problema posso restare, prendere dei giorni di permesso. -

-Oh, non ce ne sarà bisogno, credimi. Ora sali a casa e riposati. Ci vediamo all'ora di pranzo. Va a dormire, sembri a pezzi. -

E beh, questo era più che evidente! Non osavo neanche fare il conto delle ore trascorse senza dormire.

Salì a casa, avevo sempre le chiavi con me, attaccate a quelle del mio appartamento in Veneto, mollai la valigia nella piccolissima entrata, ingombra ancora degli oggettini che mia madre aveva amato tanto collezionare e tenere in bella mostra, buttai un occhio al mio riflesso nello specchio dell'attaccapanni di noce scuro, riscoprendomi con le sembianze di uno zombie appena risvegliato dal sonno eterno. Papà aveva ragione, avevo un aspetto raccapricciante.

Nonostante la stanchezza, non mi feci mancare l'occasione di girovagare un po' per quella casa, la mia casa. Era tutto praticamente immutato da quando ero bambina, la cucina componibile anni novanta con le ante di legno scuro e i pomelli simil-ceramica, la credenza di vetro con i centrini e il servizio da the del matrimonio... tutto uguale, la poltrona di papà in pelle scura, ormai logora e consunta dal tempo, torreggiava ancora nel salotto, dove lui dormiva ormai da anni, visto che occuparsi di me e del lavoro lo spossava a tal punto che, dopo cena, prendeva posto lì, senza riuscire più ad alzarsi.

Infine raggiunsi la mia stanza e mi scappò un sorriso, anzi un ghigno. Avevo quasi dimenticato quel posto, le pareti tappezzate di posters, molti dei quali di motociclisti, uno tra questi era attualmente un rivale di Ernandez. Se avesse messo piede in quella stanza, non sarebbe stato affatto contento di non trovare neanche una sua immagine, visto come era egocentrico.

Mi tuffai nel letto, senza ricordare, fino a quando lo ebbi toccato, quanto fosse duro e scomodo. Come avevo fatto a dormirci prima di trasferirmi in Veneto? Con questo quesito mistico, mi addormentai, senza nemmeno rendermene conto.

Mi svegliai che erano ormai le 14.00, sentendo la porta aprirsi e papà gettare le chiavi sul mobiletto dell'ingresso, il gesto tipico che annunciava il suo ritorno.

Mi alzai, con la stessa sensazione che avrei provato se avessi dormito sui sassi, e dopo aver tentato di riposizionare le mie ossa nel punto giusto, mi diressi in cucina. Papà era lì con un paio di buste della spesa.

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