Capitolo 1

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L'ambiente che mi circonda puzza di alcol, sesso, sigarette e di qualche altra sostanza che non riesco a identificare, ma che sarà sicuramente nociva

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L'ambiente che mi circonda puzza di alcol, sesso, sigarette e di qualche altra sostanza che non riesco a identificare, ma che sarà sicuramente nociva.

È nauseante e dovrei averci fatto l'abitudine, ormai, ma a quanto pare non ci si abitua mai.

Mi tocca orientarmi al buio perché le finestre sono chiuse. Le tende nere, ormai logore e anche un po' strappate in alcuni punti, sono state tirate per tenere la luce del giorno il più lontana possibile.

Urto una bottiglia di vetro con la gamba e sto bene attenta a non calpestare nessuna delle altre, dato che sono sparse un po' ovunque.

Ci sono bottiglie di birra vuote dappertutto, credo che l'abbiano versata anche per terra e su due delle poltrone. Sempre che sia birra e non qualche fluido corporeo. Disgustoso.

Ringrazio il cielo di non dover essere io quella a ripulire questo casino. Non voglio beccarmi nessuna malattia e sono sicura che in questo posto si rischia di prendere anche la peste bubbonica, oppure qualche malattia che non è ancora stata scoperta.

Porto lo sguardo sul divano e con la poca luce che attraversa le fessure, riesco a vedere il corpo di mia zia sdraiato su di esso. I capelli castani le coprono il viso.

Sul tavolino davanti a lei ci sono dei residui di polverina bianca, di certo non si tratta di farina o di polveri acriliche.

Da questa distanza, comunque, non riesco a capire se sta semplicemente dormendo o se invece è priva di sensi per via del festino che ha dato ieri notte, durato quasi sicuramente fino alle prime luci dell'alba.

Prima di avvicinarmi a lei apro di poco la finestra per far cambiare un po' l'aria, perché il tanfo rischia di farmi venire i conati di vomito. Tengo comunque le tende chiuse, così da non farle dolere troppo la testa una volta che avrà aperto gli occhi.

Se, aprirà gli occhi.

Spero che non ci sia rimasta secca, che mi risparmi il ritrovamento del suo cadavere. Morire di overdose a trentacinque anni è poco allettante, anche se sembra proprio che aspiri a questo.

«Jo», la chiamo, piegandomi sulle ginocchia per scostarle i capelli sudati dalla fronte. «Jo, svegliati».

Non la chiamo zia, dubito di averlo mai fatto, a lei non piace. Ha sempre detto di essere troppo giovane per essere già zia, che al massimo poteva sembrare mia sorella maggiore.

Sto per prenderle il polso per rilevare la sua frequenza cardiaca e assicurarmi che sia viva, ma lei mi precede e mugugna qualcosa di incomprensibile.

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