Capitolo 3

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C'è stato un tempo in cui guardavo il mio riflesso nello specchio e non mi riconoscevo

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C'è stato un tempo in cui guardavo il mio riflesso nello specchio e non mi riconoscevo. Non ci vedevo niente di me nell'estranea piena di lividi, le labbra rotte e gli occhi spenti che mi guardava dall'altra parte.

Così ho semplicemente smesso di farlo, ho smesso di guardarmi allo specchio.

Guardo mia madre ed è quasi come se avessi davanti a me l'estranea che ho smesso volutamente di guardare nel riflesso dello specchio.

Ha un occhio violaceo e il labbro inferiore rotto. Sussulta ad ogni singolo movimento che compie e fa fatica anche solo a stare seduta, poco importa quanto cerchi di non darlo a vedere.

«Cristo, mamma, non riesco nemmeno a guardarti in faccia». Allontano il piatto con la fetta di torta alle mele che ha preparato. Ho lo stomaco in subbuglio e se la mangiassi ora, vomiterei. «Dovresti mandarlo via, non puoi permettergli di continuare a farti questo».

Alza lo sguardo su di me e mi guarda confusa, come se le mie parole non avessero senso, come se non capisse.

So che non lo farà mai, non lo manderà via anche se dovrebbe. Avrebbe dovuto cacciarlo fuori di casa nel momento in cui le ho raccontato ciò che cercava di farmi quando lei non c'era o quando dormiva, ma non l'ha fatto.

Ha scelto lui a me, sceglierà lui a se stessa. 

«Sono solo caduta, Mallory», risponde lei con un sorriso dolorante e assolutamente falso, come le sue parole. «La gente cade spesso».

Riconosco i lividi sulla sua faccia e conosco alla perfezione le bugie che le stanno uscendo di bocca.

Oggi cadi dalle scale, domani nella vasca da bagno, poi magari nella doccia. Oggi urti ai mobili della cucina, domani a quelli della camera da letto, poi a quelli del bagno. 

È una routine che non ha mai fine e prontamente non ricordi mai come diavolo sia potuto succedere, magari sei solo troppo maldestra o sbadata.

Bugie, bugie e ancora bugie. Non sono nient'altro che questo, maledette bugie. Diventiamo così brave a dirle che oltre a convincere gli altri, finiamo per convincere noi stesse.

«Non farlo», l'avverto, «Non mentirmi e non trattarmi come se fossi stupida». Come se non l'avessi vissuto anche io o non sapessi di cosa sto parlando. Lo so fin troppo bene.

«Pensi che Felix mi abbia picchiata?» mi chiede, quasi indignata. «Non è affatto così». Continua a mentire per proteggerlo, quando l'unica che ha bisogno di essere protetta è lei.

E l'unica persona che avrebbe dovuto difendere, oltre se stessa, sono io. Ma è troppo tardi per questo.

«Hai le impronte delle sue dita intorno al tuo polso, mamma», le faccio notare, indicando proprio il punto in cui ci sono i lividi procurati da una stretta troppo forte. Lei non guarda nemmeno, finge che non ci siano. «Dubito che una caduta ti procuri un occhio nero e questi lividi sul polso».

AIDENDove le storie prendono vita. Scoprilo ora