𝙴𝚜𝚝𝚊𝚝𝚎

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Attenzione: il capitolo contiene tematiche e riferimenti che potrebbero urtare la sensibilità di alcuni lettori. Si suggerisce cautela nel proseguire la lettura.

Anche senza entrare in dettagli espliciti, la narrazione suscita immagini e implicazioni perturbanti. Prenditi il tempo necessario per decidere cosa è meglio per te e il tuo benessere emotivo. La tua salute mentale viene prima di ogni altra cosa.



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Lo chiamavano tutti zio Jack. Solo zio Jack.

Il suo vero nome era Jackson Adam White. Un nome che evocava rispettabilità e autorevolezza.

Andava a trovarli ogni estate. Arrivava all'imbrunire, con la Cadillac nera che risaliva il vialetto di ghiaia sferragliando come un carro funebre.

Si portava dietro la famiglia. Carol, sua moglie, magra come un chiodo, con la pelle tirata sugli zigomi e i capelli stopposi. Una donna che non guardava mai nulla di preciso, che parlava a monosillabi oppure non parlava affatto. Quando lui le metteva una mano sulla spalla, rabbrividiva.

Harper lo notava sempre.

Una volta l'aveva trovata nel giardino sul retro, seduta da sola a fissare le onde di calore che si sollevavano dal terreno riarso. "Mi piacciono i fiori", aveva detto, quasi a sorpresa, "hanno un modo tutto loro di parlare, senza dire nulla".

Harper lo aveva raccontato ai suoi genitori, ma loro avevano minimizzato: "È fatta così, zia Carol. È sempre stata un'anima solitaria. Questione di carattere".

Non ci aveva mai creduto. Per lei erano solo scuse.

Non riprese più l'argomento perché, alla fine, pensò che fosse un affare da adulti e che lei non avesse il diritto di intromettersi.

Nelle notti in cui giurava di sentirla singhiozzare, si tappava le orecchie, forte, per non ascoltare. E il giorno dopo fingeva che fosse stato un brutto sogno.

Poi c'erano i figli di zio Jack, due gemelli omozigoti. Ethan ed Edward. Capelli corvini unticci e gli stessi occhi infossati del padre. Sorridevano troppo. Si muovevano con un sincronismo che era quasi inquietante, come se condividessero un'unica mente.

Harper si sforzava di passarci del tempo insieme. Un esercizio di tolleranza, o forse di masochismo. Se avesse potuto, li avrebbe evitati come la peste.

I loro giochi erano sempre di un genere che flirtava con il morboso. Dissezionavano giocattoli, non per curiosità ma per distruggere, per vedere come il tutto cedesse al caos.

Avery ci andava d'accordo, invece. Riusciva ad assecondare la loro stranezza, li accettava così com'erano, con il loro carico di ombre. E loro ricambiavano con un'inaspettata dolcezza.

Harper si sentiva fortunata. A essere nata nella famiglia di suo padre, il fratello buono. E non in quella di zio Jack.

Suo padre era un uomo mite. Un po' debole forse, ma un bravo genitore. Attento, premuroso. Una quercia dai rami solidi su cui arrampicarsi.

Zio Jack era diverso. Un albero sciancato che sarebbe potuto cadere da un momento all'altro. Schiacciandoti senza preavviso.

GeloWhere stories live. Discover now