9. Come una cometa in fiamme

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E poi, non so come, si fa sempre un po' di spazio,
anche dove sembra che non ce ne sia.

Luciano Ligabue


Per quanto simili a quelle di Dylan, non appartengono a lui.

«Ah, eccoti.» Il disappunto dell'uomo è marcato in ogni sillaba. «La tua amichetta ha fatto un casino, di sotto. Nemmeno avesse il diavolo alle calcagna. Ho dovuto farla entrare o finiva che svegliava l'intero isolato.»

Il ragazzo che occupa la soglia ha cicatrici che si ramificano sulla pelle come fiumi carsici tra le rocce. I capelli sono rasati a zero, lasciando il cranio spoglio e martoriato da vistose ustioni. Il padiglione auricolare sinistro è fuso in una massa informe, la carne arrossata e contorta. Una canottiera si aggrappa alle spalle come lenzuola a stendardi d'ossa.

La visione mi riempie d'orrore, eppure non riesco a smettere di fissarlo, con la stessa morbosità con cui non si può smettere di guardare la scena di un incidente.

Capisco di essermi cacciata in un vicolo cieco e di non sapere affatto come uscirne, finché una voce che riconoscerei tra mille non mi fa sobbalzare.

«Ehi, Clay! Chi rompe i coglioni a quest'ora?»

Spunta poco dietro il ragazzo, in boxer e t-shirt dei Metallica. Dylan.

Il suo corpo si irrigidisce quando mi vede, come se avesse toccato un cavo elettrico. La rabbia è la prima a farsi strada, un rogo che si sprigiona nelle pieghe della sua fronte. Poi arriva la confusione, gli scompiglia i pensieri. E il panico, una bestia selvaggia, minacciosa, che gli fa perdere un po' di colore in viso.

«Allora, è la tua di fidanzata?» incalza l'uomo, spazientito. «Vorrei tornarmene a dormire, se non vi dispiace.»

Dylan sembra essersi inceppato, così metto insieme il contegno rimastomi e dico: «Ciao. Come stai? Volevo— volevo scusarmi. Per quello che è successo qualche giorno fa. Ho esagerato e mi dispiace. Speravo di poterne discutere.»

La verità è che sono venuta qui spinta dalla disperazione e dalla paura. È stato incosciente ma non potevo resistere all'urgenza di sfogare queste emozioni. Con te. Perché avevi ragione, anche se mi fa venire voglia di urlare ammetterlo: desidero qualcuno che mi faccia compagnia mentre sono impegnata a combattere i miei demoni. E tu— tu sembri la persona giusta.

Dopo un momento che pare infinito, lo sento pronunciare un cupo: «È a posto, Al. Puoi andare.»

L'uomo bofonchia qualcosa sui "pazzi scatenati di questi tempi" e si allontana.

Respiro, un respiro che raccoglie ogni frammento di coraggio e lo trascina dentro. Perché adesso – o mai più – devo essere tutto ciò che ho sempre temuto d'essere e che non ho mai saputo domare.

«Posso entrare?» chiedo piano.

Dylan scambia un'occhiata con il ragazzo sfregiato, poi si scosta. Quando richiude la porta, sento il suo sguardo sulla schiena, sul pigiama che sbuca da sotto il giubbotto. Devo sembrargli una mentecatta.

L'appartamento è un bilocale angusto. Al centro, un tavolo traballante e due sedie. La cucina è ridotta a un unico pensile con le ante scheggiate, sotto il quale troneggia un frigorifero pieno di ruggine e un lavello di piatti sporchi.

Per terra videocassette impilate senza ordine, vecchi giornali, indumenti accartocciati. Ma anche dettagli inaspettati, come i disegni affissi alle pareti: ritratti a carboncino, schizzi a matita, paesaggi ad acquerello. Anche i libri ammassati in una credenza sono una sorpresa. Grandi classici come L'idiota di Dostoevskij, accanto a romanzi contemporanei e a gialli. Mi chiedo se li abbia letti davvero o se siano solo un vezzo per darsi un tono da intellettuale.

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