8. Erbacce

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Non ti arrendere, anche se il freddo brucia,
anche se la paura morde,
anche se il sole si nasconde, e il vento tace;
c'è ancora vita nei tuoi sogni.

Mario Benedetti



Il solito giro di presentazioni sta per iniziare. Sono Harper, ho diciassette anni e uno zio che pensava che masturbarsi dietro la porta della mia camera fosse un passatempo accettabile.

Ho ricostruito più versioni di questa storia. In alcune sono una spia nascosta in piena vista, in altre un soldato in guerra. La versione che non racconto mai, però, è quella dove sono solo una ragazza, una ragazza che non ha avuto bisogno di inventarsi niente. Quella versione non esiste, perché lì non avrei possibilità di controllare il finale.

Ci fanno sedere in cerchio su delle sedie pieghevoli blu. Devono simboleggiare qualcosa di profondo. La tranquillità dell'oceano, la serenità del cielo. Ci penso dalla prima volta che ho messo piede qui dentro, un paio di mesi fa. A me ricordano solo l'asilo. O peggio, gli ospedali.

Il centro si trova in una palazzina anonima nella periferia della città. Ha tre stanze per gli incontri, arredate con mobili Ikea, gli uffici per le consulenze individuali e una saletta relax con riviste e tisane. C'è anche un acquario con una decina di pesci rossi che nuotano tutto il giorno avanti e indietro. Quando ne è morto uno, Jill, la nostra coordinatrice, ha pianto per un'ora.

Ho scoperto Rinascita per caso, navigando online alla ricerca di "gruppi di supporto per—" e poi cancellando la cronologia. Non volevo niente di troppo ufficiale o psicologico, solo un posto dove potermi sfogare in anonimato. Un articolo locale parlava di un centro appena aperto gestito da volontari, promettendo comprensione e riservatezza. Ho chiamato ed è stata proprio Jill a rispondere. "Vieni quando vuoi, la porta è sempre aperta".

Così un pomeriggio sono uscita con la scusa di andare a studiare a casa di una nuova amica – tale Suzan – e ho preso l'autobus numero cinque, quello sgangherato che impiega il triplo degli altri per arrivare a destinazione. Ho comprato il biglietto dall'autista e mi sono seduta in fondo, accanto al finestrino, passando quasi tutto il tempo a guardare il paesaggio urbano scorrere, le facciate grigie degli edifici alternarsi a parcheggi e rotatorie.

Ricordo quanto fossi tesa. Continuavo a torcermi le mani, temendo che una volta lì qualcuno avesse potuto riconoscermi e mettere in moto il famoso "telefono senza fili", quello che trasforma un trauma in un episodio di gossip.

L'autobus ha accostato con un sibilo pneumatico proprio davanti a un colosso di cemento che svettava su tutto con i suoi otto piani scrostati. Persiane arrugginite, muri scuriti dallo smog, balconi traboccanti di vasche di plastica e panni stesi. Un contrasto stridente con il decoro omogeneo del quartiere che c'eravamo lasciati alle spalle.

È stato come oltrepassare una linea di confine tra due mondi distinti. Da una parte l'apparenza rassicurante della normalità, dall'altra la zona dimenticata dove si annidano i dolori indicibili.

Mi sono stretta nel giubbotto e ho controllato l'indirizzo sul cellulare per essere sicura che fosse giusto. Lo era.

La prima seduta è stata— surreale. Quattro persone in tutto, perlopiù ragazzi della mia età, che hanno cominciato a sfogarsi di ansie scolastiche, litigi coi genitori, cuori infranti. Io fissavo le crepe sul soffitto, trattenendo la voglia di urlare loro quanto fossero insignificanti quelli che chiamavano "problemi". Annuivo di tanto in tanto e blateravo frasi di circostanza quando Jill mi si rivolgeva, convinta di aiutare una studentessa modello un po' timida.

Oggi ci troviamo nella stanza più grande, con le tende color glicine cucite da un ex iscritto. Jill dice che il lilla favorisce l'introspezione. Non saprei in che modo, ma lei ci crede. Sulla parete ha persino attaccato frasi stampate in Comic Sans, tipo "Non importa quante volte cadi, ma quante ti rialzi!". Affermazioni alla Avery.

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