10. Inferno: andata e ritorno

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Ci sono ferite che per cicatrizzarsi hanno bisogno di altre ferite.

Michelangelo


La città si disfa in una scia di nebulose urbane, e noi siamo fulmini che si snodano tra le sue vene.

I lampioni sfilano come sentinelle. Scrutano, illuminano, poi scompaiono. La loro luce si frantuma nei miei occhi. Diventa quella di mille stelle cadenti, di mille sogni elettrici.

La velocità mi strappa via l'aria dai polmoni. Respiro e mi si ghiacciano le ciglia, mi si incendiano le guance. Vedo il riflesso del nostro passaggio nelle vetrine dei negozi. Sento l'applauso smorzato delle fronde agitate dal vento.

Non ci sono più pensieri, né paure. Sono sospesa tra cielo e terra.

Quando Dylan piega, il mondo si inclina. Mi aggrappo più stretta a lui e mi perdo nel ritmo, nell'attimo. Nell'inaspettata dolcezza di essere qui.

Finché non imbocchiamo una strada secondaria, dove il paesaggio cambia più rapido dei miei stati d'animo e l'asfalto è come il viso di un adolescente: un po' rovinato, un po' irregolare e decisamente bisognoso di attenzioni.

Le case si diradano; immagino che i residenti considerino un viaggio al supermercato come una spedizione alla ricerca dell'Arca Perduta.

Un'altra curva e percorriamo un lungo viale alberato. Deserto, a eccezione di un paio di villette e qualche insetto che tenta il suicidio contro il nostro fanale – il che è sia rassicurante che inquietante. Ogni tanto, un cartello stradale balza fuori dalle ombre annunciando cose tipo "Attraversamento di Scoiattoli Kamikaze".

Rallentiamo; il motore emette una serie di borbottii e poi si arrende. Tace.

Davanti a noi, zolle d'erba alta si alternano a macchie di sterpaglia. Non c'è traccia di sentieri. L'unico segno di civiltà è una staccionata con lo scarabocchio artistico di qualche ragazzo annoiato. Un certo "Jax" è stato qui e, a quanto pare, "ama" qualcuno. Spero solo in modo più durevole della vernice che ha usato per dichiararlo.

Dylan si toglie il casco. Le sue dita scivolano sotto la mentoniera, sollevano l'involucro che ha custodito i suoi pensieri, i suoi sguardi, e i capelli si spargono in libertà, sfiorando il colletto della giacca. La luce lunare gioca tra le ciocche, le tinge di sfumature che sfidano il buio: è un nero che diventa blu, un blu che corteggia la notte.

Le mie mani, invece, esitano. Vorrebbero trattenersi ancora; barricarsi in questo abbraccio un secondo in più.

Non mi sono mai sentita così a mio agio con un ragazzo. Mai, davvero. Nemmeno con Jeremy. Zio Jack mi ha insegnato che a volte "toccare" significa "macchiarsi", così mi atterrisce l'idea di essere troppo, di spingermi oltre un confine che neanche vedo. I baci, i sogni, le fantasie – la mia realtà è fatta di questo. Il resto è un territorio insidioso dove il cuore si espone e si screpola.

Imprimo nella mente la durezza e il calore del suo giubbotto sotto i polpastrelli, e lascio andare la presa. Mi sbarazzo del casco e rilascio un sospiro.

Dylan smonta dalla sella, pianta il cavalletto e si volta a guardarmi.

«Vuoi farci il nido, lì sopra?»

In un universo parallelo, gli assesterei una pedata. In un altro, replicherei con una delle mie battute da Nobel per l'arguzia. In questo, scendo sgambettando per mantenere l'equilibrio.

Ci muoviamo di qualche passo. Il panorama è una tavolozza di colori spenti; il vento si alza, una carezza gelida che mi costringe a serrare i denti. Dylan, al contrario, si sfila la giacca, se la butta sopra una spalla e per un attimo la sua aura di ragazzo problemi-sì-problemi-no si addensa.

GeloWhere stories live. Discover now