6 - La maledizione di Smallwick

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C'era una volta un giovane dalla pregevole bellezza, nobile di sangue e di animo, che si narrava facesse cadere ai propri piedi ogni fanciulla del reame. Un giorno, perdutosi nei fitti boschi di Smallwick, il giovane vide un'incantevole fanciulla intenta a lavare le proprie vesti nelle dolci acque di un ruscello. Aveva dei lunghi capelli, fili d'oro intrecciati a polvere di stelle, e occhi puri come la sorgente della vita eterna. Il giovane se ne innamorò perdutamente. I due iniziarono ad incontrarsi segretamente nel bosco, vicino a quel ruscello dove il sentimento era sbocciato come un fiore a primavera, poiché il padre del giovane era contrario all'amore tra uno dei suoi figli e una qualsivoglia plebea. Tale divieto, tuttavia, non si sarebbe mai interposto tra i due. Gli amanti continuarono a vedersi e a scambiarsi sogni e promesse d'amore finché, un dì, il giovane smise di presentarsi. La fanciulla dalla folta chioma aurea, angustiata dal pensiero che potesse essergli accaduto qualcosa di terribile, cercò il giovane vagando in lungo e in largo per il sacro bosco, senza ottener riscontro alcuno, poi decise che lo avrebbe atteso al ruscello come aveva sempre fatto, col cuore ricolmo di una ritrovata speranza. Il tempo passò; tuttavia, il giovane non tornò mai più. Un dì come un altro, un anziano mercante di pellami e spezie, vedendo la fanciulla in difficoltà, si fermò col suo carretto e, offrendole un cesto di frutta fresca, le raccontò che si stava recando a Smallwick in vista del matrimonio tra il giovane principe e una nobildonna di Grenois. Altri non poteva trattarsi che del suo amato. Distrutta dal dolore e col cuore a pezzi, la fanciulla maledisse il giovane, le generazioni a venire e la città intera: essendo stato lui un bugiardo, da quel giorno in avanti nessuno sarebbe stato più in grado di dire la verità. Incapace di sopportare il dolore di tale perdita e di ciò che aveva fatto al suo amato, la fanciulla si tolse la vita accanto al ruscello, luogo dove il loro amore era sbocciato senza, tuttavia, andare incontro al lieto fine che avrebbe desiderato.

Nel cuore della notte, qualcuno bussò al portone della Bocca del lupo. Baldwin sobbalzò sulla sedia, alternando imprecazioni contro le antiche divinità a rantolosi borbottii. Ignoti visitatori avevano disturbato il prezioso sonnellino dell'uomo, costringendolo di fatto ad alzarsi sulle sue deboli gambe per offrire i servigi della casa. Trascinatosi controvoglia verso la porta in legno di ciliegio, Baldwin fece scorrere la sottile lamina di ferro che copriva lo spioncino e gettò un'occhio fuori. Faceva un tempo da cani. Tre figure incappucciate attendevano sotto l'incessante scroscio della pioggia, fidenti che una qualche buon'anima offrisse loro un tetto sotto al quale potersi riparare fino al naturale concludersi della bufera.

«Chi siete? Cosa volete?»

«Cerchiamo una dimora per la notte, messere» gli chiese una giovane donna nascosta dietro al cappuccio di seta, cercando di sovrastare con la propria voce il tamburellare delle gocce d'acqua che si infrangevano contro il cortile selciato.

«Questa non è una locanda, andate via» brontolò seccato Baldwin, richiudendo lo spioncino e scomparendo dietro di esso. Lo stridio di una chiave che, dopo alcuni tentativi, si inseriva nella serratura e quello del chiavistello che ruotava poi, anticiparono il cigolio sinistro con il quale lo spesso portone si spalancò. Un flebile flusso di luce investì i tre forestieri, proveniente dalle lampade ad olio appese oltre il massiccio portone. Baldwin, con il gesto di una mano, fece loro segno di entrare.

I tre forestieri si scambiarono sguardi perplessi. Titubanti sul da farsi, decisero di raccogliere l'invito ed entrarono nella locanda. Togliendosi di dosso i madidi mantelli e appendendoli a un attaccapanni di legno, i tre sconosciuti appena sopraggiunti rivelarono i loro tratti al gobbo uomo che li aveva fatti entrare: la prima era una donna dalle fattezze quasi divine, con delle lunghe trecce lucenti e iridi intense come la tormalina, il secondo era un uomo dal portamento raffinato e un'eleganza degna della corte dei Linacre; non si poteva dire altrettanto della terza figura in loro compagnia, un energumeno di quattro cubiti e dalla carnagione bronzea simile a quella dei popoli di Reshret, le tribù unite della sabbia. Il torso ignudo del bestione esponeva pettorali, addominali e altri muscoli come preziosa mercanzia a una fiera, mentre delle cinte in cuoio, tenute assieme da un anello di ferro e passanti sopra le spalle e sotto l'ipocondrio, gli permettevano di agganciare due pesanti asce bipenne dietro alla schiena. Dallo sguardo non pareva tanto sveglio; il classico individuo tutto muscoli e niente cervello.

I Reami di ChromaliaWhere stories live. Discover now