Capelli color miele

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Il giovane poliziotto scese dall'auto con cautela, le gambe intorpidite e pervase da un formicolio insistente. Una calma apparente, che stonava con l'urgenza della situazione. Non appena fuori dalla macchina, attese l'arrivo del Tenente e, insieme, tirarono Michele fuori dall'auto. Il suo corpo era pesante come piombo. Lo appoggiarono delicatamente a terra per permettersi entrambi una presa migliore, ma un improvviso suono di sirene e motori che si avvicinavano incarogniti distolse la loro attenzione. I due uomini voltarono lo sguardo da una parte all'altra della strada, alla ricerca della provenienza di quei suoni: arrivavano dappertutto.

«Devi portarlo da solo – disse Quarta con premura incalzante – ce la fai?». Il poliziotto si voltò, senza rispondere e allargò le gambe per acquisire una posizione il più stabile possibile.

«Facciamo in fretta». Non appena sentì il peso morto del corpo di Michele cadere sulla sua schiena lo afferrò meglio che poté e, senza voltarsi, cominciò a camminare, più veloce che poteva, in direzione della grande entrata dell'ospedale. Solo una volta davanti alla grande porta d'ingresso dell'ospedale girò lo sguardo, per un secondo, e con un sorriso ringraziò l'amico per quello che aveva fatto e che stava per fare. Vide il Tenente prendere la pistola, sparare alcuni colpi in aria come per attirare l'attenzione su di sé, entrare in auto e tentare di fuggire: una scena che sarebbe diventata l'ultimo ricordo vivo di quell'uomo, che lo avrebbe accompagnato per il resto della sua vita. Poi, sparì all'interno della struttura, in sottofondo il suono ovattato delle urla dei poliziotti e un solo, sordo sparo. Mentre cercava qualcuno che prestasse soccorso a Michele, si ritrovò a pregare, rivolto ad un dio col quale non aveva mai avuto a che fare. E d'improvviso, la sua schiena si alleggerì, liberandolo da un peso enorme e la stanchezza lo avvolse, di colpo, facendolo svenire.

«Cos'è successo?» chiese Vittorio con voce impastata. Non sapeva dire per quanto tempo fosse rimasto svenuto e, ora, una terribile emicrania gli pervadeva la testa: la sensazione costante era quella di un enorme peso che lo schiacciava insistentemente verso il pavimento. Un'infermiera lo accompagnò alla sedia più vicina e, anche se la vista ancora appannata non gli permetteva di distinguerne perfettamente i lineamenti, il tocco e la voce delicati della donna gli ricordavano quelli di una signora anziana, materna e premurosa. «Come sta Michele?» chiese sommessamente, come se temesse la risposta.

«Non sappiamo ancora niente, signore» rispose l'infermiera con un impostato tono rassicurante. «Ha perso molto sangue e lo stanno operando per cercare di salvargli la vita, ma l'intervento durerà parecchie ore» poi si allontanò dall'uomo, continuando a guardarlo con un sorriso che trasmetteva speranza. «La informeremo non appena possibile».

Mentre si dirigeva verso la stanza di Michele, si rese conto che aveva perso la cognizione del tempo. Non era in grado di dire quanto tempo fosse passato, se minuti, ore o, addirittura, giorni. Aprì la porta della stanza lentamente ed entrò con cautela, come se la sua presenza e un suono più forte del normale potesse svegliare Michele. Si avvicinò al letto con lo sguardo basso, incapace di guardare quel corpo inerme che, come un monito silenzioso ma severo, gli ricordava che avrebbe potuto fare molto di più. Prese una sedia e, sempre facendo estrema attenzione a non far rumore, la adagiò accanto al letto di Michele e si sedette. Solo allora decise di alzare lo sguardo e guardare il ragazzo negli occhi, nella speranza vana di vederli riaprirsi. Poi, guardò i capelli dell'uomo, neri e stropicciati in parte dal sudore, in parte dal sale trasportato dalla brezza marina. Erano in netto contrasto con i suoi, in ordine e decisamente più chiari: erano leggermente dorati e avevano il colore del miele.

Cuore al buioWhere stories live. Discover now