5. La professionista

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Pomezia Bansci aveva intrapreso la professione per necessità più di trent'anni prima. Rimasta orfana ancora ragazza, aveva avuto la fortuna d'incontrare un uomo perbene, che l'aveva sposata prima ancora di saggiare le sue doti; ma quando, dopo cinque anni di matrimonio, non aveva saputo dargli l'erede che desiderava, quello stesso galantuomo l'aveva abbandonata in mezzo a una strada, più povera di prima. E Pomezia in quella strada era rimasta, vivendo dell'unica cosa che, nella sua limitata visione del mondo, una donna sterile aveva da offrire alla comunità.

Sotto l'aspetto economico non si può dire che se la fosse passata male, anzi, aveva visto morire di fame e d'orgoglio donne con molto più potenziale di lei. Ma nonostante avesse un tetto sulla testa e la pancia sempre piena, quell'antico desiderio d'incontrare un uomo che la considerasse unica non s'era mai sopito.

Perciò le sussultò il cuore quando quella carrozza si fermò davanti al falò. Mai prima d'allora ne aveva viste di così sfarzose: sobria ed elegante, ma con lavorazioni raffinate e intarsi incisi a filo d'oro. Doveva appartenere a un nobile di alto lignaggio, di quelli soliti frequentare solo bordelli di lusso. Cosa ci facesse in quel sobborgo malfamato era un mistero che probabilmente solo una delle meretrici in mostra sulla via avrebbe risolto. Pomezia non poté fare a meno di sperare d'essere lei la fortunata, anche quando dal finestrino s'affacciò un volto sgraziato dall'età indefinibile. E quando su quel volto, come un ghigno, si dipinse un sorriso, e un cenno del capo l'invitò a salire, si sentì felice come una regina.

Malachia, questo il nome del suo anfitrione, non poteva in effetti dirsi un bell'uomo: l'occhio destro gli si muoveva per i fatti suoi, i denti erano ancor meno allineati, e neppure quei pochi capelli parevano riuscire a stare insieme. Aveva insomma un'aria disordinata e una faccia strizzata come un cencio da lavare, ma possedeva incredibili doti affabulatorie e gli bastarono poche parole per incantarla.

I suoi modi erano tanto cortesi quanto ricca era la sua magione, la sua ospitalità tanto squisita quanto veemente la sua passione. Fu una notte talmente speciale che quando Pomezia vide colui che intimamente già definiva il suo uomo rivestirsi, ebbe un moto d'ansia, come sorpresa da un senso d'abbandono.

«Non voglio che tu vada» la tranquillizzò lui. «Devi posare per me.»

Così Pomezia salì sul piedistallo al centro di quello che aveva inteso essere lo studio di un artista, sebbene privo di tele e colori, e il suo cuore batté folle d'emozione: fra le tante proprio lei, Pomezia Bansci, stava diventando la musa ispiratrice di un maestro.

Ed era in effetti così, sebbene le arti in cui era maestro Malachia l'Ombroso non fossero esattamente quelle immaginate dalla sventurata.

Ciò che accadde nei minuti successivi era cosa già vista, quantomeno da Malachia (e da Morte, che aveva assistito a tutti i suoi esperimenti). Per Pomezia fu solo una piacevole carezza, alcune poetiche parole sussurrate da dolci labbra, e un solletico fastidioso ma incantevole.

Per il Tristo Roditore non fu neppure quello: si presentò all'appuntamento un istante prima del necessario senza minimamente badare ai fatti. Non notò quindi il bizzarro uomo che stava imprecando a denti stretti davanti ai cocci pietrificati sparsi sul pavimento, ma prestò tutta la sua professionale attenzione unicamente allo spirito.

«Madame, mi segua, è il momento di andare.»

Pomezia, che al contrario aveva occhi solo per Malachia, non era in egual modo riuscita a cogliere l'essenza della situazione; non comprendeva cosa facesse il suo pigmalione, e ancor meno da dove venisse quella fastidiosa voce.

L'urlo venne solo quando vide il topo incappucciato in attesa alla sua destra.

«La prego, madame, non faccia...»

Quelle parole trasformarono l'urlo in isteria. Pomezia provò a issarsi su uno sgabello, ma la sua attuale natura incorporea non le agevolò le operazioni.

«Senta signora, tutto questo è davvero inutile» insistette il Tristo Roditore, agitando la sua piccola falce.

Alla vista dell'arma, la voce della donna si tramutò in un unico e vibrante fischio, tanto potente che persino Malachia si voltò a fissare il vuoto là dove lo spirito si disperava.

«Per la miseria, ora capisco perché Morte ha avuto un esaurimento» bofonchiò tra sé. Poi attese nella speranza che la donna si placasse.

Speranza vana, poiché il grido pareva incessante. E in effetti lo era, dato che ora Pomezia non aveva più bisogno di prendere fiato. Un'unica catena di suoni e parole ultraterreni uscivano dalla sua bocca, e tra queste forse i più attenti avrebbero colto termini come «aiuto», «topo» e «Malachia», ma lo avrebbero fatto sacrificando i timpani.

Non che il Tristo Roditore rischiasse di perdere l'udito, ma la pazienza un po' sì.

«Signora, io non sono un topo» dichiarò deciso togliendosi il cappuccio.

Questa volta Malachia ne fu certo: un gelido grido di morte aveva attraversato la stanza, incrinando per un attimo anche la sua malevole fermezza. Decise di raccogliere i resti pietrificati della donna, per darle una degna sepoltura. Non che a Pomezia interessasse granché, dato che aveva ancora forti problemi ad accettare la realtà.

«Signora, senta, non ho tempo da perdere, il lavoro è raddoppiato e si sono aggiunti anche gli straordinari, quindi deve ascoltarmi.»

La prostituta non mostrò segni di cedimento. Il Tristo Roditore si decise a proseguire per la sua strada: «È difficile, lo so, ma deve accettarlo. Lei è morta e ora, se vuole riposare nella pace eterna, deve venire con me verso quella luce. Che ne dice?»

L'urlo non si placò. Il Tristo Roditore diede un'alzata di spalle.

«Io ho fatto la mia parte. Buona permanenza.»

Si voltò un'ultima volta poi sparì nella luce.

Nessuno seppe mai che ne fu di Pomezia Bansci. Ma Malachia smise di fare esperimenti in quella stanza.

Quando la Morte è in vacanzaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora