Capitolo 5° - INCROCI DI DESTINI

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Presi il cofanetto ed il violino determinato più che mai a prendere il primo treno per Pordenone. La città era piccola, curata, a dimensione d'uomo, mi bastarono un paio d'informazioni chieste ad alcuni passanti ed arrivai davanti al ristorante Noncello. Si trattava di un ristorante molto chic, decisi di entrare in punta di piedi con il mio violino nella mano destra ed il cofanetto sotto il braccio. All'interno del ristorante c'era una grande frenesia, dietro il banco, un barman stava schekerando chissà quale cocktail, nella sala grande alcuni camerieri erano impegnati nella preparazionedi un tavolo imperiale, il tavolo delle grandi occasioni. Mi misi in un angolo per non intralciare i "lavori in corso" quando misentii battere sulla spalla, mi girai e vidi un uomo con la divisa da chef, il quale mi chiese cosa potesse fare per me. Ero molto imbarazzato, gli dissi che cercavo un certo Paolo e gli mostrai il cofanetto. Alla vista del cofanetto, con mossa repentina, mi prese sotto braccio e scendemmo le scale, già quelle scale, ebbi la netta sensazione di averle scese altre volte, ma perché? erano sensazioni che duravano una frazione di secondo, per poi frantumarsi come un bicchiere di cristallo raggiunto da una nota acuta. Lo chef mi condusse al piano di sotto dove c'era la tavernetta del ristorante, dalla quale, attraverso una vetrata si potevano osservare i cuochi impegnati in cucina nella preparazione di varie prelibatezze. In un angolo dell'enorme cucina, notai una vasca in plastica, all'interno della quale c'era una piccola tartaruga marina. Cosa ci faceva lì? Incuriosito lo chiesi a Paolo, il quale mi spiegò che il menù di quelle sera prevedeva il brodo di tartaruga. Stentai a credere alle mie orecchie, volevano uccidere quell'esemplare per farne del brodo? Ero circondato da pazzi.

Alle pareti della tavernetta, erano state appese delle foto che ritraevano personaggi famosi che evidentemente era passati per quel locale. Anche se la mia memoria era ancora labile, mi parve di riconoscere Giorgio Gaber, Albertazzi ed un giovanissimo Mike Bongiorno. Lo chef, aveva i capelli rossicci ed il volto pieno di lentiggini e come tutti gli altri conosceva il mio nome. Sembrava una persona per bene, aveva un non so che di raffinato nelle movenze, io ero in preda alla disperazione, quasi lo implorai di darmi delle spiegazioni, una qualche chiave di lettura che mi aiutasse a capire ed a ricordare. A quel punto entrò un uomo sui venticinque anni dal portamento fiero e signorile, io quell'uomo, tanto per cambiare l'avevo già visto, ma dove? Con una certa concitazione aprii il cofanetto e tirai fuori quel vecchio articolo di giornale, sì quel venticinquenne dal ciuffo fluente era il maitre ritratto nella foto. Ad un tratto, la nostra attenzione venne attirata da un grande frastuono proveniente dal piano di sopra, Paolo ed il maitre salirono velocemente le scale, io li seguii fino fuori dal locale, dal fondo del viale si udivano urla, schiamazzi, e una voce diffusa da un megafono che parlava di scioperi selvaggi, rivendicazioni salariali ed in mezzo alla folla svettavano le bandiere rosse, un manifestante si appese alla cancellata di un istituto privato cattolico, al grido di "Borghesi uscite, uscite, state con il popolo" Mi avvicinai e notai che alla testa del corteo era stato steso un lungo striscione con la scritta, Rex – Zanussi. Per la seconda volta, assistevo da testimone ad una altra pagina, questa volta buia, orrenda della storia di questo paese, il periodo dell'eversione che aveva originato la lotta armata, il terrorismo. Quella visione, mi gelò il sangue, nel contempo però quella scritta, Zanussi, mi diceva qualcosa, e chiesi a Paolo di fornirmi qualche indizio.

Lo chef gentiluomo, mi spiegò che si trattava di una grande azienda e di qualcosa di più, era, da qualche decennio, il fulcro di quella città e di quella provincia che sembravano esser state forgiate da quella imprenditorialità figlia del dopoguerra e fautrice di un vero e proprio miracolo economico. Che strano, ebbi l'impressione di averla già sentita questa storia, decine e decine di volte, come se anche quella azienda, di cui avevo appena appreso l'esistenza fosse un altro importante tassello di questa follia che stavo vivendo.

Ad un tratto, mi sentii sospinto da una forza quasi sovra naturale che mi proiettò davanti a quell'istituto cattolico che era stato oggetto degli epiteti di un manifestante.

Sulla facciata di quell'imponente palazzo c'era scritto "Collegio Don Bosco", quell'insegna, mi provocò una stretta allo stomaco ed una nostalgia recondita si impossessò di me. Non riuscivo ad interpretare quella sensazione, avevo capito di essere convintamente ateo e quello era un istituto religioso, mi sentii vittima di una contraddizione. Anche in questo caso, la mia memoria labile mi venne in soccorso, all'interno di quelle stanze avevo trascorso una dei momenti più importanti ed intensi della mia vita, come spiegare altrimenti quell'uragano di sensazioni che si stava scatenando dentro me.

Paolo, mi prese di nuovo sottobraccio e m'invitò a fare una passeggiata, quasi a volermi distogliere da quel contesto.

Gli chiesi per quale ragione, pochi istanti prima, avessi avuto la netta sensazione di conoscere quel maitrè. Mi spiegò che si chiamava Silvano ed era il suo braccio destro da una decina di anni, da quando, con un valigia scalcagnata era arrivato da un piccolo paesino di campagna della provincia di Venezia. Udite quelle parole, venni catapultato ancora una volta in un altro scenario. Davanti a me, vidi una splendida riviera che costeggiava un fiume. L'autunno inoltrato, sembrava aver attinto ad una tavolozza di colori forti e caldi per dipingere le chiome di quei platani che sembravano tante sentinelle poste sull'attenti. Sull'argine c'era una ragazzo, poco più che adolescente, accovacciato a carponi con le mani immerse nell'acqua, sembrava dolorante. Lo raggiunsi preoccupato e mi accorsi che stava piangendo, l'acqua del fiume era diventata rossastra, le sue mani stavano sanguinando copiosamente. Mi tolsi la giacca, strappai due pezzi della mia camicia e li strinsi attorno alle sue mani per tentare di fermare l'emorragia. Gli dissi che dovevamo trovare assolutamente un medico e gli chiesi come avesse fatto a ferirsi in quel modo. Smise di piangere ed il suo respiro si fece meno affannoso, mi raccontò che durante l'ora di dottrina aveva commesso una marachella ed il parroco per punizione l'aveva rinchiuso all'interno del campanile. A quel punto, il ragazzo era salito sino a raggiungere la cella campanaria, aveva tirato su la lunga corda di una delle campane e l'aveva lanciata al di fuori del campanile, poi si era calato giù, ma suo malgrado, durante la discesa aveva perso la presa ed era scivolato rovinosamente lungo la parete del campanile provocandosi quelle lacerazioni ai palmi della mani ed alle ginocchia. Beh, aveva dimostrato tenacia, coraggio ma forse, quel ragazzino era un po' una testa calda. Un momento, la signora del consolato, nel congedarmi, mi aveva esortato a cercare una cella campanaria, proprio quella dalla quale questo ragazzo monello si era lanciato.

Mi disse di abitare proprio dietro la chiesa ma non voleva saperne di rientrare perché temeva la reazione del padre. Non potevo lasciarlo lì, aveva bisogno di cure, mi offrii di accompagnarlo per dargli un po' di conforto, era visibilmente impaurito.

Imboccammo una piccola viuzza in fondo alla quale un omone con le braccia conserte e con lo sguardo severo ci stava aspettando, era suo padre, mi feci coraggio anche io, quella presenza mi intimoriva. Presi il ragazzo sotto braccio ed avvertii una sorta di fremito, uno strano brivido, quasi che quel contatto non fosse casuale. Sua Padre mi salutò cordialmente e mi chiese chi fossi, eccoci qua, un'altra volta questa domanda, avrei voluto chiedere chi fossero loro, ma questo rincorrersi di domande non faceva che alimentare la mia confusione. Gli spiegai che passando casualmente lungo la riviera, avevo notato suo figlio in difficoltà e mi ero offerto di dargli una mano aggiungendo che doveva subito portarlo da un medico.

Avevo capito che quel ragazzetto stava aspettando un bello scappellotto tra capo e collo ed invece suo padre lo prese per mano e lo fece sedere vicino a lui su un dondolo, lo strinse a se e poi cominciò " C'era una volta....." ero di troppo? Sì, ero di troppo, non li salutai neppure, mi allontanai per non violare la loro intimità.

IL PROIETTORE IMMAGINARIOWhere stories live. Discover now