7. L'angelo del ghetto (I)

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Una raffica di schegge ghiacciate colpì Camelie Venice Lambert in pieno volto, costringendola a ripararsi dietro un pilastro di cemento.

La ragazza alzò lo sguardo confusa e sobbalzò nel realizzare che si trovava sotto un alto portico ricoperto di crepe. Dove diamine era finita?

Gli occhi rubino vagarono spaesati lungo il viale deserto. Niente le era familiare di quel luogo: le costruzioni erano in cemento armato invece che in vetro specchiato; l'aria era impregnata di un tanfo dolciastro, come di gas di scarico e spazzatura bruciata; non c'erano colonnine MultiService sui marciapiedi, solo cassonetti dei rifiuti, sventrati; e dai vicoli che si diramavano dalla strada su cui si trovava, proveniva il ronzio di macchinari in funzione e voci concitate.

Camelie capì subito di essere finita nel ghetto di Nilemouth e fu colta dal panico. Battendo i denti, più per la paura che per il freddo, ruotò due volte su se stessa nel tentativo di ricordare da dove fosse arrivata. Una coltre senape aleggiava a una decina di metri da terra, nascondendo lo skyline del business district, l'unico punto di riferimento che le avrebbe permesso di orientarsi con facilità.

La ragazza si aggrappò a quel poco che sapeva del quartiere malavitoso della città, ma le venne in mente solo una lista, inquietantemente lunga, di notizie di cronaca nera.

«Rifletti, Camelie, rifletti» biascicò tra sé e sé, sperando che sentire la propria voce l'avrebbe tranquillizzata. «Maledizione! Maledizione! Rifletti!»

Lo sguardo le cadde su un ratto che mangiucchiava la spazzatura spalmata sul marciapiede e la ragazza venne fulminata dal ricordo di qualcosa che aveva sentito chissà dove, chissà quando. Il ghetto era l'unica zona della città dove i rifiuti non erano smaltiti normalmente - ovvero tramite i canali di vaporizzazione ecologica - perché nessuno aveva il coraggio di mandare i propri AI nelle case della gentaglia che viveva lì. Cassonetti in grado di ridurre i rifiuti in dadi grandi un paio di centimetri cubi erano stati quindi installati lungo le arterie principali del quartiere.

Quella su cui si trovava Camelie in quel momento, l'ampia via costellata di pattumiere fuori uso, non poteva dunque che essere una delle vie cardinali del ghetto. Se avesse evitato di inoltrarsi nei vicoli maleodoranti, forse aveva qualche speranza di uscire incolume dal guaio in cui si era cacciata.

Estrasse il tablet dalla borsa, nella vana speranza che il device fosse tornato online. Era completamente sola nell'unico luogo dove i suoi tratti albini, spia inconfutabile della sua classe sociale, rischiavano di essere la sua condanna.

Come le era venuto in mente di seguire dei mendicanti? Perché l'immagine dei due bambini per mano l'aveva rapita a tal punto da farle perder il contatto con la realtà? Aveva sentito il bisogno incontrollabile di sapere dove fossero diretti e perché avessero l'aria tanto spensierata nonostante la loro vita non potesse che essere un inferno.

Si era convinta che il matrimonio combinato con Kennedy Holsen avrebbe rovinato il suo futuro, che niente sarebbe stato peggio di essere costretta a sposare un uomo che la disprezzava profondamente e invece, per la seconda volta in una settimana, si era scavata con le proprie mani una fossa ancor più profonda.

Tentò di ripercorrere i propri passi. Camminando, laddove possibile, sotto i portici - in modo da potersi nascondere nell'ombra in caso di pericolo - e pregando di non incontrare nessuno, Camelie si trascinò lungo il marciapiede ricoperto da un sottile strato di neve. Le strade non venivano spalate a dovere, nel ghetto, perché le macchine automatiche deputate a quell'attività venivano solitamente assaltate e smontate nel giro di qualche ora. Con le parti rubate, gli abitanti del quartiere aggiustavano le infrastrutture decadenti delle abitazioni.

Presto perse nuovamente la cognizione del tempo; non capiva se il suo cervello fosse atrofizzato per il freddo, per la stanchezza o per la paura. O forse per tutti quei motivi messi insieme.

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