10. Tarocchi propizi (II)

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Lo strabismo di Olaria Navarro era visibile solo da una certa angolazione. La ragazza aveva imparato a ruotare il capo con precisione millimetrica ogniqualvolta voleva approfittarne per mascherare i propri pensieri.

Nonostante avessero pressappoco la stessa età, la Pizia aveva i modi di una donna, non di una ragazzina, e Camelie fu contagiata presto dal suo spirito pragmatico.

«Non puoi andare in giro conciata così. Sei come un confetto in una zuppa di fagioli» considerò Olaria infilandosi nella sua tenda.

Camelie pensò che l'altra avrebbe potuto scegliere tra decine di metafore più eleganti: un diamante in una miniera di carbone, un giglio in una palude, un gatto persiano in un canile...

«Niente parrucche, per favore!» esclamò ricordando all'improvviso la proposta di Xavi.

«Pensavo a qualcosa di più drastico, magari una tinta poco appariscente...»

Olaria emerse dalle frange di seta logora, stringendo un tubetto pieno di una sostanza fango.

«Se i miei genitori non avessero manipolato i miei geni, avrei probabilmente i capelli castani» annuì Camelie.

Aveva sempre avuto un rapporto conflittuale con il suo aspetto fisico. Per quanto fosse fiera della perfezione dei suoi tratti albini, combatteva quotidianamente con quelli che credeva gli effetti collaterali delle manipolazioni genetiche. Di tanto in tanto aveva fantasticato sulla possibilità di essere meno bella, ma più sana. Avrebbe volentieri barattato le sfumature cremisi dei suoi occhi, accontentandosi per esempio del rosso spento di quelli di Mei Chen, per qualche ora in meno di emicrania lancinante.

Non conosceva la storia medica di tutti gli albini della New Hope Academy, ma era certa che nessuno dei suoi amici stretti soffrisse della sua stessa condizione.

«Mascherare il colore dei tuoi occhi non è altrettanto banale. Dobbiamo sperare che la gente pensi che indossi delle lenti colorate; lenti che purtroppo non possiamo permetterci, qualora ci stessi pensando» riprese la Pizia.

L'idea di coprire con uno strato di tinta scadente quello che, per una vita, era stato uno dei simboli del suo status sociale, le faceva uno strano effetto. Da quando si era svegliata nel circo, aveva assecondato le persone in cui si era imbattuta: prima Xavi, poi Ozzie, infine Olaria. Quasi le piaceva la sensazione di mettersi ciecamente nelle mani di quei misteriosi circensi così sicuri, lei che di sicuro non vedeva più nulla.

Essere bombardata da tutte quelle stranezze la faceva sentire viva, in preda a un'effervescenza di possibilità. C'erano voluti sette giorni per rovinare la sua vita, magari ne sarebbero bastati altri sette per rimetterla in piedi. Doveva solo riacquistare la lucidità e tutti i suoi problemi sarebbero stati ridimensionati a quello che erano: sassolini nelle scarpe.

Nonostante l'ottimismo che di tanto in tanto la travolgeva, le bastava ripensare alla conversazione con suo padre o alle prese in giro di Kennedy Holsen per sentirsi di nuovo impotente, schiacciata dall'accordo matrimoniale che aveva cercato lei stessa; e così Camelie decise di concentrarsi sul presente. Su come mascherare la sua origine altolocata, su come accattivarsi le simpatie di Olaria, su come trovare una scusa per rivedere Xavi. Xavi che già le mancava.

Olaria Navarro la condusse fuori dal tendone dove erano accampati i membri del circo, attraverso un secondo tendone più piccolo, che aveva tutta l'aria di essere un luogo dove i circensi provavano i loro numeri. Camelie non riuscì a fare a meno di soffermarsi a osservare incantata i trapezi dorati che scendevano dal soffitto di cerata. Attraverso un lembo socchiuso, la ragazza sentì provenire dei ringhi e capì finalmente dove fossero rinchiuse le belve.

Era sorprendente come quel complesso di tendoni si fosse espanso tra gli scheletri in metallo dei palazzi del ghetto. I fatiscenti edifici abbandonati facevano da supporto ai lembi di cerata, riparando dalle continue nevicate quelli che un tempo erano stati viali e piazze.

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