8.

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KAYDEN

Il coach è affamato di successi. Anche io lo sono, non tanto per la squadra quanto per il bisogno di dimostrare a mia madre che posso farcela con le mie forze. 

Devo farmi notare, ottenere una borsa di studio e fuggire da Weston. Kennie mi sta evitando, da quando siamo andati via da quel locale non mi ha rivolto la parola e oggi si è presentato a scuola con Willa. Ancora mi chiedo come diavolo siano diventati amici.

Mi tolgo la divisa e mi butto sotto la doccia, mi insapono e sciacquo velocemente mentre evito di guardarmi la pelle. 

Ho qualche livido sull'addome e uno sul fianco. Giro il rubinetto e il getto d'acqua scompare, esco dalla doccia e mi avvolgo un telo intorno ai fianchi. I ragazzi sono quasi tutti andati via, ma non c'è abbastanza silenzio per evitare rotture di coglioni.

«Ehi, amico» esordisce Gus. «Volevo parlarti della festa».

Sbuffo e mi asciugo velocemente, prendo un paio di boxer e li indosso.

«Di come stavi per scoparti Chelsea davanti a tutti?»

Gus sbianca e incrocia le braccia al petto. È già vestito, la tuta rossa e blu con i colori della squadra gli fascia i muscoli. Afferro un paio di pantaloni sportivi neri e li indosso poi mi infilo una maglietta a maniche corte con il logo dei Tigers.

«Senti, è stata lei a buttarsi su di me. Lo sai com'è fatta».

Scuoto la testa e un sorriso maligno mi incurva le labbra. Gus non è in grado di assumersi la responsabilità delle sue azioni.

«Non me ne frega un cazzo di quello che fai con lei» chiarisco. «Ma evita di farlo davanti a tutti perché sappiamo bene che agli occhi di questa scuola Chelsea è mia».

La nostra relazione mi torna comoda per tutta una serie di cose che non devono essere di suo interesse. In effetti, Chelsea mi aiuta più di quanto la gente si immagini. Mi torna utile perché fa di me quello che voglio essere per gli altri. 

August annuisce e da un colpo di tosse, sembra a disagio e me lo confermano i piedi che strusciano sul pavimento. Mi alzo, mi butto il borsone in spalla e mi incammino verso l'esterno. Siamo rimasti noi due e a lui non resta altro che seguirmi, camminiamo in silenzio fino al parcheggio.

«Che diavolo sta succedendo tra tuo fratello e quella sfigata?»

Butto il borsone sul sedile del passeggero e mi scosto i capelli dalla fronte.

«Non ne ho idea. Frequentano un corso insieme».

«Kennedy sa quel che fa?»

Vorrei saperlo anch'io. Scrollo le spalle e salgo a bordo della mia auto, saluto Gus e lo osservo lasciare il parcheggio a bordo della Porsche che suo padre gli ha regalato per il suo compleanno. È abituato a vivere nel lusso da quando ha emesso il primo vagito. 

I Lancaster non sono poveri, ma i miei antenati non erano altro che persone normali che hanno fatto fortuna con il duro lavoro. Mio padre, ad esempio, è diventato il manager di una casa farmaceutica con molta fatica e in ritardo a causa delle problematiche della nostra famiglia. Mamma è un'insegnate di fisica, invece. 

Accendo il motore ed esco dal parcheggio, quando passo accanto all'ultima fila di auto ancora parcheggiate però il mio sguardo viene attratto da qualcosa. Un paio di anfibi famigliari sporgono dal marciapiede, si agitano come se i piedi che li calzano stessero ballando. 

So che non devo farlo. Non sono affari miei e io non sono Kennedy, ma fermo lo stesso l'auto. Abbasso il finestrino dal lato del passeggero e mi sporgo. Willa è seduta sul marciapiede con le cuffie nelle orecchie e la gonna della divisa scolastica che lascia scoperta la pelle liscia delle cosce. 

DEAR WILLAWhere stories live. Discover now