9 - Andrea

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A distanza di anni, non saprei dire che cosa mi fece innamorare di Andrea. Sicuramente, l'età giocò un ruolo cruciale: io avevo appena sedici anni, lui ventuno: cinque più di me.
Andrea non era particolarmente bello: alto e dinoccolato, i capelli lasciati un po' lunghi. Aveva però degli splendidi occhi color zaffiro.
Gli stessi occhi con cui mio figlio mi guarda ogni giorno e che, quasi come una cicatrice splendida ma dolorosa, mi ricordano dei giorni passati.
Andrea era quello che si definisce un "tipo" e ciò dipendeva in gran parte dal suo modo di porsi: sempre sicuro di sé, la postura eretta, la sigaretta tenuta su da un mezzo sorriso strafottente perenne sulle labbra.
Oggi lo definirei arrogante, a quell'età mi sembrava tremendamente affascinante.
Mi veniva a prendere all'uscita dalla scuola in auto: mi aspettava nella sua vecchia Panda arancione di seconda mano e io correvo da lui, mi sbattevo dietro la portiera un po' cigolante buttandomi tra le sue braccia, sotto gli sguardi invidiosi delle mie compagne.
Frequentare un ragazzo più grande mi collocava di diritto nell'Olimpo delle ragazze popolari e io, che come tutte le adolescenti bramavo un briciolo di considerazione, mi crogiolavo in questa parvenza di visibilità.
Al di là dell'apparenza fatta di t-shirt a poco prezzo e jeans un po' logori, Andrea era di buona famiglia: finite le superiori, aveva iniziato a lavorare nell'azienda di import-export del padre.
La sua condizione economica era la sola cosa che non facesse disprezzare completamente la nostra relazione da mia madre.
Io ero troppo giovane, avevo altro che gli uomini a cui pensare.
Mia madre che degli uomini ha sempre avuto un'opinione bassa e priva di stima, a partire da mio padre.
Quest'ultimo preferiva la via del silenzio: non si esprimeva lasciando che fosse mia madre ad intervenire sulla vicenda. A lui bastava non smuovere le acque. Questa, la sua regola di vita: se funziona in superficie, funziona anche in profondità. Basta saper camminare su quel filo di armonia artefatta, stando attenti a non commettere passi falsi.
Stare con Andrea voleva dire ribellarmi ai pregiudizi di mia madre e all'accondiscendenza di mio padre.
Voleva dire sputare loro in faccia il mio essere autonoma e libera di scegliere. Voleva dire che no, io non avrei fatto la loro fine.
E poi lo amavo, ero sicura di non poter vivere senza di lui.
"Sono gli ormoni" ribatteva mia madre "ti passerà."
Ma, ormoni o non ormoni, la nostra relazione andò avanti e dopo qualche anno si trasformò in una convivenza. Andrea aveva comprato un piccolo appartamento in centro.
I miei non erano d'accordo, ma io ero maggiorenne e potevo legalmente decidere per me stessa.
Andrea si era preso la mia verginità e per me non esisteva altro uomo al di fuori di lui.
I primi due anni furono meravigliosi: mangiavamo pizza sul divano, camminavamo mezzi nudi per casa godendo di quella libertà e facevamo l'amore sul tappeto.
Non era vita vera: era una sitcom televisiva, destinata a subire un brusco calo di interesse dalla terza stagione in poi.
Si sa: la convivenza è gioie e dolori. Rivela, impietosa, le differenze più subdole, quelle che sembrano innocue all'inizio ma che poi fanno traboccare il vaso.
Io e Andrea non avevamo niente in comune.
Io mi ero iscritta a Psicologia, amavo leggere e tenevo un quaderno che speravo un giorno mi avrebbe fornito gli spunti per il mio libro. Sognavo, ma ero anche molto concreta. Avevo la testa sulle spalle.
Lui mi diceva di lasciarmi andare, che ero troppo analitica, troppo razionale. Pesante.
Le serata davanti alla televisione o a fare l'amore si trasformarono in serata passate davanti al pc per me e fuori con gli amici per Andrea.
Rincasava tardi, spesso mezzo brillo.
Farglielo notare significava prendermi della palla al piede.
Prima di dormire fumava e la stanza era pregna dell'odore legnoso della cannabis.
Continuava a lavorare per suo padre, ma l'impegno che ci metteva era così saltuario che l'unica cosa che aveva in comune con quell'azienda era il cognome.

Quando, dopo una settimana di ritardo, urinai sul test di gravidanza lo feci da sola. Non gli avevo detto niente e non volevo nessuno con me in quel momento: mi bastava il panico che provavo.
Non ricordo di aver mai vissuto cinque minuti più lunghi di quelli.
Guardai le due striscette rosa che si coloravano colma di incredulità e terrore. Come poteva essere? Prendevo la pillola.
Frastornata, andai a comprare un secondo test. Stesso risultato.
La prima persona che chiamai fu la ginecologa. C'era, mi disse, una piccolissima percentuale di possibilità di rimanere incinta anche assumendo la pillola.
"I test non sbagliano: se ti esce positivo, allora sei incinta. Congratulazioni, cara."

Lo comunicai ad Andrea quella stessa sera. Penso che in me ci fosse ancora la speranza che la nostra relazione potesse essere salvata. Forse quell'evento inatteso ci avrebbe riavvicinati.
Avevo ventitré anni e della vita non ci avevo capito ancora nulla. Men che meno degli uomini.
Lui rimase immobile, con quel solito mezzo sorriso che adesso mi appariva quasi crudele. Mi fece solo una domanda: "Ti sei ricordata di prendere la pillola?"
Poi mi voltò le spalle e salì di sopra.

La mattina dopo, trovai un biglietto in cucina.
"Mi trasferisco un paio di giorni da Davide: mi aspetto di non trovarti al mio rientro.
Sappiamo entrambi che sarei un padre di merda."
Un essere umano di merda, sarebbe stato più calzante.

Lasciai l'appartamento immediatamente, mi abbandonai alle spalle ogni progetto che lì dentro avesse messo i suoi primi germogli. Le mie speranze, spazzatura.
Non provai a convincerlo. Ero disgustata. E non solo dalla sua reazione: sarei ipocrita se dicessi di non aver pensato all'aborto neppure per un secondo.
Ci ho pensato per giorni e per notti infinite nella vecchia camera a casa dei miei.
Adesso, mi rendo conto di non averlo mai voluto davvero: era solo un appiglio a cui aggrapparmi, l'ultima scialuppa di salvataggio su cui sarei potuta salire. Può suonare terribile e forse lo è: ma sapere di avere quella possibilità mi faceva sentire più tranquilla, impedendomi di annegare.
Per nove mesi ho vissuto con la testa sott'acqua.
Sono state le manine di Mattia a riportarmi a galla.

Di quel periodo, oltre alla nausea e alla sensibilità agli odori più impercettibili, ricordo il senso di smarrimento, i "te lo avevo detto" di mia madre.
La vicinanza di Lisa, la sorella di Andrea.

The rainbow in my heartWhere stories live. Discover now