10 - Pranzo di famiglia

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È il primo giorno di Maggio e io e mio fratello Roberto siamo a pranzo dai miei. Quando arrivo con Mattia, lui è già lì da almeno un'ora.
"Ce ne hai messo di tempo, sorellina!" mi apostrofa affettuosamente ancor prima che abbia messo piede in casa.
"Com'è la situazione qui?" mi informo mentre levo l'impermeabile a Mattia: ormai piove da quasi un mese e l'estate sembra non debba arrivare mai.
Roberto alza impercettibilmente le sopracciglia e stende le labbra mentre una fossetta si forma sulla guancia destra. Io ho la stessa fossetta a sinistra. Capisco che è nervoso.
Ci somigliamo, io e Roberto: capelli cioccolata e ondulati, occhi così scuri che le pupille si distinguono a malapena dall'iride, lentiggini sul naso piccolo e dritto. Quando eravamo bambini, ci scambiavano spesso per gemelli: ci passiamo solo un anno e siamo sempre stati più o meno della stessa altezza. Tranne quando frequentavamo io la prima elementare e lui la seconda e, per un breve periodo, io sono stata più alta di lui. Cosa per cui mi capita di prenderlo ancora in giro.
Nonostante questo, Roberto è il mio spirito protettivo ed è anche l'unica ragione per cui, quando proprio non posso farne a meno, metto ancora piede qui dentro. So che vale lo stesso per lui.
Mio fratello indica con il capo il piano di sopra: nostra madre deve essere in cucina a preparare il pranzo e nostro padre chiuso nel suo ufficio a fare qualche conto e a segnare sul calendario le spese dell'ultimo mese. Segna tutto nostro padre, persino se compra un pacchetto di caramelle.
Nessuno dei due è sceso a salutarci: il concetto di accoglienza in questa casa è, diciamo, qualcosa di astratto.
"Una favola, sis, una favola: la solita atmosfera distesa che si taglia con un coltello" mi risponde sarcastico "hanno già discusso per quali bicchieri mettere a tavola e per la temperatura dei termosifoni: secondo papà è troppo alta."
Negli ultimi anni, l'ossessione di mio padre per i soldi si è acuita fino a diventare continuo motivo di litigio e insofferenza.
Il denaro è sempre stato il suo tallone di Achille: quello che, da piccolo imprenditore, è riuscito a mettersi da parte non è mai stato in grado di goderselo. Nè di farlo godere a noi.
"Immagino... Michele e Stella?" chiedo.
"A casa. Sai che Michele preferisce evitare di venire qui se possibile e Stella ha la febbre da un paio di giorni" mi spiega.
Come dar loro torto, penso.
Michele è il compagno di Roberto e Stella la loro bambina avuta, dopo tanta fatica e sofferenza, tramite maternità surrogata.
Sono quasi dieci anni che stanno insieme, eppure i miei continuano a trattare Michele alla stregua di un estraneo: convenevoli e sorrisi di circostanza.
Nessuno dei due ammetterà mai la verità.
Mia madre recita una grande apertura mentale dietro la quale si cela pura e semplice ipocrisia. E un'ignoranza contro la quale è inutile combattere: sarebbe come prendersela con i mulini a vento. È un'ignoranza, quella di mia madre, che affonda le radici nella paura di perdere le piccole certezze che si è costruita in una vita di tristezza e scarse soddisfazioni.
Mio padre finge di non sapere: non l'ho mai sentito fare una domanda su Michele o su Stella, informarsi su come vadano le cose. Anche se mio fratello si comporta come se la cosa non lo toccasse più, io posso percepire il suo dolore sulla mia pelle, come una scossa a basso voltaggio ma che sta sempre lì, a urlarti sottovoce che sei una delusione.
La realtà, di cui io e mio fratello siamo ben consci, è che un figlio omosessuale è uno smacco al buon nome della famiglia.
Quando si sono sposati, mamma e papà si conoscevano da appena tre mesi. Non avevano niente in comune se non qualche sguardo ammiccante e qualche parola scambiata nel locale da ballo gestito dai genitori di mia madre. Dai racconti di nostra madre, mio padre era un latin lover borioso e insopportabile. Mia madre non poteva soffrilo. Ma lei veniva da una famiglia di umili origini. Aveva passato i primi sedici anni della sua vita in collegio. Quando mio padre le chiese di sposarla a mia nonna parve una grazia divina: l'unica figlia femmina sistemata e con un buon partito.
I miei sono sposati da quarantatré anni e l'unica cosa che li ha tenuti insieme è stato il disperato tentativo di salvare le apparenze.

Metto una mano sulla spalla di mio fratello: "vediamo di levarci il dente."

Mattia è già di sopra e sta correndo nell'enorme salone da centoventi metri quadri.
Mia madre fa capolino dalla cucina e, finalmente, ci salutiamo.
"Ho preparato il polpettone e le patate arrosto" ci fa sapere rivolgendosi in particolar modo a Mattia dato che il polpettone è il suo piatto preferito.
Per l'occasione, ha apparecchiato in sala da pranzo.

Mangiamo tra le lamentele di papà per la carne troppo dura e le patate insipide e le frecciatine di mamma che lo invita ad andare al ristorante.
Io e mio fratello siamo cresciuti ma, nella nostra fantasia, c'è ancora quel piede pronto a fuggire di quando eravamo bambini.
Poi, vedo Mattia posare la forchetta e guardare tutto serio suo nonno: "nonno, sarà peggio per te se ti toccherà andare al ristorante: lì ti rifilano le stesse patate per giorni!"
Ridiamo tutti: sia benedetta la capacità dei bambini di stemperare qualsiasi tensione.

Ce ne andiamo tutti e tre dopo aver preso il caffè: il cielo plumbeo rende l'aria irrespirabile, ma a me sembra così leggera se paragonata a quella di casa.
Davanti all'auto, Roberto mi stringe e mi sussurra all'orecchio le esatte parole di cui ho bisogno: "ci meritiamo di essere felici, sorellina: non dimenticarlo."

C'è una teoria psicologica secondo la quale tendiamo a riprodurre i modelli relazionali che ci hanno fatto soffrire nell'infanzia.
Lo facciamo perché ci convinciamo che, adesso che siamo adulti, non ci faranno più star male e che, anzi, saremo in grado di aggiustarli facendo pace, contemporaneamente, anche con il passato.
Freud la chiamava coazione a ripetere.

È ciò che ho fatto con Andrea ma adesso, caro Freud, ho smesso. Tutto vorrei tranne far crescere Mattia come siamo cresciuti io e mio fratello: passando la fanciullezza a schivare le emozioni come un pugile sul ring.

Per questo ho scelto di rimanere sola e continuo a dannarmi perché la mia mente non la smette di rimuginare sul messaggio di Noah.

The rainbow in my heartWhere stories live. Discover now