2. Sconosciuti

107 3 0
                                    

Negli ultimi tempi, solo tre cose mi avevano tenuto a galla in quel mare di banalità: la scrittura, i grandi classici della letteratura e la fotografia. Mi piaceva fotografare persone che non conoscevo, gente che avrei mai più rivisto se non in foto. Io li chiamavo gli sconosciuti. Così, quando arrivai a Milano, sentii finalmente di aver trovato un posto adatto a me. Iniziai a viverla, esplorarla, respirarla e divenire un tutt'uno con essa, e in meno di quanto avessi previsto, mi feci trascinare in quel vortice di luci e rumori. Camminavo per le strade cercando di mimetizzarmi tra le persone, facendo finta di essere qualcuno che non ero. Scrutavo i passanti, cercando di capire a cosa stessero pensando. Essere un perfetto sconosciuto in mezzo a sconosciuti mi dava come una sensazione di pace. Guardavo volti di persone che presto mi sarei dimenticato e mi sentivo libero in quell'anonimato. Passai così la mia prima settimana nella città, tra cafè pseudo letterari e passeggiate sulla Darsena, tra corse in metro negli orari di punta e nei bus sostitutivi di notte. Tornavo a casa e scrivevo delle cose che avevo visto, delle persone che avevo fotografato, dell'odore di piscio nelle gallerie della metropolitana, della frenesia della città. Inventavo storie di cui i protagonisti erano il cameriere del bar sotto casa, la ragazza che leggeva Nabokov sul tram o il barbone che chiedeva qualche moneta ai passanti.

Nella notte antecedente al mio primo giorno da universitario sentii su di me il peso delle mie scelte e di quelle che mi erano state imposte, un'angoscia profonda ma al tempo stesso un'adrenalinica tensione. Vomitai tutto quello che avevo in corpo e forse molto di più. Ma nell'istante stesso in cui mi buttai a letto, con la testa che non finiva di girare e lo stomaco da buttare, sorrisi. Finalmente mi sentivo bene.

Il giorno dopo mi svegliai che non era ancora sorto il sole. Da qualche mese ormai soffrivo di una leggera forma di insonnia che non mi permetteva di dormire più di qualche ora a notte. Mi avvicinai ad una delle due finestre della stanza per sgranchirmi le gambe e la spalancai. La brezza del mattino entrò nella camera da letto, portando con sé anche l'odore dello smog e della città. Non faceva particolarmente freddo nonostante fosse il 5 settembre. Mi sporsi, guardando in basso: le strade erano già terribilmente trafficate. Tutti quegli uomini e tutte quelle donne stipati nelle loro automobili, sopraffatti dalla loro stessa quotidianità, animati dalla fretta di dover andare al lavoro, a scuola, all'università o semplicemente al bar. Pensai a quanto fossero noiose tutte quelle persone.

Non c'è cosa peggiore che rendere la propria vita un cliché.

Lungo l'orizzonte, oltre i palazzi, il sole iniziava timidamente a mostrarsi. I primi e freddi raggi si riflettevano lungo le facciate di vetro e cemento degli edifici. Quella mattina però c'era qualcosa di diverso nell'aria. La fine dell'estate porta con sé il seme della rinascita, di un nuovo inizio. E' il momento in cui la vita riprende dal punto in cui s'era interrotta. Ispirai a pieni polmoni quell'aria malsana ed ebbi come la sensazione che la città, in quella mattina di inizio settembre, avesse in serbo qualcosa per me.

Preparai lo zaino per la giornata e presi con me anche la macchina fotografica. Era una fotocamera a pellicola, un modello molto in voga agli inizi degli anni Novanta. Controllai che ci fosse il rullino inserito e ne presi un altro vuoto per sicurezza. Mi misi lo zaino in spalla e uscii silenzioso dall'appartamento, ancora convinto che quella sarebbe stata una giornata promettente.

Piazza Duomo quella mattina non era poi così affollata. La maggior parte delle persone erano solo passanti: c'era chi andava al lavoro e chi si fermava nei bar a prendere il mattutino cappuccino con brioches. Di turisti in giro ce n'erano ben pochi, anche se non mancavano i classici asiatici muniti di cellulare e Nikon.

Me ne stava appoggiato contro un muro, lo zaino a terra e la fotocamera appesa al collo. M'accesi una sigaretta e rimasi ad osservare il via vai di persone che usciva dalla metropolitana. Alzando lo sguardo mentre si salivano le scale, si veniva immediatamente sopraffatti dall'immagine del Duomo. La vista dell'enorme ed imponente struttura era come un'epifania architettonica per tutte quelle persone che risalivano in superficie, dopo essere rimasti nel sottosuolo della metropoli.

Guardai l'ora, constatando che avevo ancora parecchio tempo prima dell'inizio delle lezioni. M'ero ormai rassegnato all'idea che non avrei fatto alcuna foto quella mattina, quando all'improvviso vidi una figura attraversare la piazza. Una ragazza.

I lunghi capelli castani erano raccolti in una treccia perfetta che teneva lungo la spalla sinistra. Sull'altra spalla stringeva forte una borsa di pelle nera di e in viso, occhiali da sole tondi alla John Lennon le coprivano gli occhi. Si fermò un attimo in centro alla Piazza per ammirare la bellezza del Duomo sotto la luce di un sole ancora freddo.

Non seppi spiegarmi ciò che accadde dopo. Fu come se un fulmine mi avesse colpito in pieno petto. Sentivo l'impellente necessità di sapere ogni cosa che la riguardasse e molto di più. Volevo sapere chi fosse, da dove venisse, cosa facesse nella vita. All'epoca non la conoscevo nemmeno, e anche adesso mi è difficile spiegare quello che provai vendendola per la prima volta. Fu come se, nell'istante stesso in cui la vidi avvicinarsi, con quella sua movenza così elegante e con quel suo passo così deciso, ma allo stesso tempo aggraziato, avessi capito che la mia esistenza sarebbe stata inequivocabilmente ed inesorabilmente sconvolta da lei.

La sconosciuta riprese la sua attraversata, passandomi proprio davanti, senza però accorgersi della mia persona. Approfittai di quell'invisibilità. Lasciai che si allontanasse di qualche metro, poi buttai il mozzicone a terra, raccolsi lo zaino e mi misi a seguirla, senza saper trovare una valida ragione per tale gesto. La seguii all'interno della Galleria, dove si fermò davanti alle vetrine di Luis Vuitton. Io le ero dietro di una decina di metri. La vidi sollevare gli occhiali da sole per appoggiarli sopra la testa, lungo l'attaccatura dei capelli. Le scattai una foto prima che si rimettesse in cammino.

Continuai a starle dietro fino a quando non decise di svoltare in un vicolo e di entrare in un bar. Guardai nuovamente l'orologio: c'era ancora tempo. Aspettai quindi diversi minuti prima di entrare, con l'idea che in questo modo non l'avrei insospettita. Mi sedetti ad un tavolo non troppo distante da quello dove si era seduta lei, ma abbastanza prossimo per poterla osservare meglio. S'era tolta il cappotto appoggiandolo sulla sedia accanto. Ora che le ero così vicino, notai tutti quei particolari di cui non m'era ancora accorto. Sulla pelle candida, quasi diafana, spiccavano gote di un rosso tempore. Il piccolo naso alla francese era cosparso di lentiggini e poco più sotto sbocciava come un fiore la bocca sottile. Sopra il labbro, sulla destra, un piccolo neo le macchiava il volto candido, un point de beautè detto alla francese. Ma ciò di cui rimasi davvero scosso furono gli occhi. Aveva occhi di un castano così chiaro che a tratti ricordavano il colore dell'oro, di un'intensità così magnetica che non avrebbe risparmiato alcun uomo.

Era semplicemente la ragazza più bella che avesse mai visto.

Arrivò la cameriera. La sentii ordinare un cappuccino e una brioches alla marmellata. La cameriera segnò tutto su un block notes e poi si diresse verso di me per prendere anche il mio di ordine.

- Buongiorno, cosa Le posso porto, signore? – mi domandò.

- Un caffè macchiato, grazie. – risposi distrattamente.

Nell'attesa, la sconosciuta prese un libro dalla borsa. Stava leggendo Les fleurs du mal di Baudelaire. Mentre scorreva gli occhi sulle pagine, assunse un'espressione così concentrata e assorta che non potei resisterle e le scattai diverse foto.

Arrivarono gli ordini e la ragazza chiuse il libro, mettendolo sulla sedia dove aveva sistemato anche la borsa. Fece colazione con calma e in silenzio, quasi come se non volesse dar fastidio a qualcuno. Mangiava composta, con la schiena dritta contro lo schienale e i gomiti non appoggiati al tavolino. Continuai ad osservarla sorseggiando il mio caffè macchiato, senza nemmeno sentirne il sapore: più la guardavo e più non potevo fare a meno di guardala.

Le squillò il cellulare. Rispose calma e nel giro di qualche secondo concluse la telefonata. Finì a quel punto di bere il cappuccino e di mangiare la brioches, s'alzò dal tavolo prendendo cappotto e borsa, si diresse alla cassa per pagare e se ne andò. M'alzai immediatamente e pagai il mio conto. Stavo per uscire quando, abbassando lo sguardo, vidi che s'era dimenticata di rimettere in borsa il libro che stava leggendo. Lo presi con me e uscii di corsa dal bar, deciso a fermarla e a restituirglielo, ma non appena fui fuori, feci solo in tempo a vederla salire su una Mercedes in fondo alla strada e allontanarsi a tutta velocità nella mattina milanese.

Rimasi lì, in mezzo alla strada, con una copia di Baudelaire in mano. In cuor mio sapevo che probabilmente non l'avrei mai più rivista, ma nonostante ciò, volli sperare con tutto me stesso che quella non sarebbe stata l'ultima volta.

La bellezza nascostaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora