8. Capirsi

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Mi presentai all'appuntamento in anticipo. Riemersi dalla stazione di Porta Genova e mi incamminai verso il Naviglio Grande. Ho sempre pensato che quella fosse una delle zone più belle della città, così giovanile, colorata, viva. Camminando per quelle strade, immaginavo di trovarmi altrove, in un posto non definito sia nel tempo che nello spazio. Sentivo ancora la necessità di scappare, nonostante mi fossi lasciato alle spalle il passato. Nelle notti più buie, nei momenti più difficili, cercavo conforto in posti in cui sapevo che non lo avrei trovato. A quei tempi, avevo paura, una terribile e insensata paura della vita. Ma ora, se alzavo la testa e lasciavo che lo sguardo andasse oltre gli edifici, oltre al cielo, vedevo o almeno speravo che ci fosse qualcosa per me. Che la mia vita non si sarebbe fermata lì, che sarebbe andata oltre. Che sarei stato felice prima o poi.

Fumai una sigaretta e l'aspettai. Mi misi ad osservare le persone che avevo attorno, esattamente come facevo ogni volta che non capivo qualcosa del mondo. Ripensai alla telefonata che avevamo avuto qualche ora prima, al modo in cui s'era conclusa, con quel suo "non vedo l'ora di vederti" che lasciava intendere più di quanto avessi potuto sperare.

Ero teso. E quando ero teso fumavo tanto, troppo. Mi specchiai nella vetrina scura di un cocktail bar. Mi lasciai le pieghe della camicia, sistemai il colletto, mi passai una mano tra i capelli. Non m'ero mai sentito così tanto insicuro di me stesso. Mi ritrovai a pensare alle cose più disparate, che forse avrei fatto meglio a comprarle delle rose. Che forse sarebbe stato più opportuno andare a prenderla a casa. Che forse un caffè sarebbe stato più informale, mentre un aperitivo sembrava più impegnativo. Mi domandai cosa avrebbe pensato della mia camicia, dei miei capelli, della mia voce e di me in generale.

Mi sentivo un ragazzino.

Perché il solo pensare a lei mi faceva sentire piccolo e debole e inadatto. Lei era eccezionale, mentre io no. Accesi un'altra sigaretta.

Mi guardai attorno, convinto e anche un po' speranzoso che non si sarebbe presentata: una delusione sarebbe stata più facile da superare rispetto ad un fallimento. Poi la vidi.

Olimpia De Marchi era raggiante in quel vestito di cotone color crema. Si muoveva leggera in mezzo alle persone, quasi come se stesse fluttuando a due dita da terra. Nello splendore dei suoi diciannove anni, possedeva quel tipo di bellezza che non si può spiegare. Era l'inconfutabile prova dell'esistenza di Dio, perché solo Dio avrebbe potuto creare qualcosa di così bello. Una dea che leggeva Baudelaire e ascoltava i Joy Division.

Ci salutammo con due baci casti sulle guance. Mi complimentai con lei dicendole quanto la trovassi bella con quel vestito. Lei arrossì leggermente, ma non mi ringraziò. 

Trovammo quasi subito un locale, dove ci fecero accomodare all'esterno: lungo il Naviglio Grande non era difficile trovare un posto per bere qualcosa. Arrivarono i cocktail: Olimpia ordinò un Manhattan, io un banalissimo Campari. Non conoscevo molti drink e non sono mai stato un gran bevitore. In casa mia non c'era mai stata questo tipo di cultura, un vizio costoso e poco produttivo.

Ci ritrovammo faccia a faccia. All'inizio ci fu un po' di imbarazzo. Lei se ne stava un po' sulle sue e io non avevo mai avuto il pregio di saper prendere l'iniziativa. Ma parola dopo parola, sorso dopo sorso, la vergogna lasciò il posto alla spontaneità e potemmo davvero essere noi stessi. Perché sentivo che con lei avrei potuto essere me stesso, che con lei non avrei avuto bisogno di fingermi un'altra persona. Più l'ascoltavo e più ne ero ammaliato. Parlammo di tutto e di niente, parlammo di tutto ciò che ci passava per la mente. Non importò di cosa discutevamo, non facevamo discorsi profondi. Semplicemente parlavamo. Parlammo dei posti che avevamo visto e di quelli che avremmo voluto vedere. Discutemmo sulla reale rilevanza degli autori russi nella letteratura moderna e del perché lo stile vintage fosse tornato di moda nonostante nessuno più ascoltasse la musica dei Police, dei Clash, di Bowie. Constatammo che Daniel Craig è il miglior James Bond della saga cinematografica, anche se il suo secondo film non merita quanto gli altri. Parlammo della bellezza di Milano in inverno, della demenza senile che colpisce chi decide di diventar vegano, del capitalismo, delle persone che hanno paura dell'olio di palma, delle estenuanti pretese delle lobby gay, della paura di volare, di quanto siano ipocrite le persone che pubblicano citazioni di Nietzsche senza manco sapere chi sia, dei fissati con la palestra, del fatto che il Capodanno è un giorno come gli altri e San Valentino una festa inventata e manovrata dagli industriali del cioccolato. Saremmo potuti andare avanti a parlare di qualunque cosa e non ci saremmo mai annoiati. Fummo in accordo e disaccordo, litigammo sulla questione delle femministe, lei mi tenne il muso tra un drink e l'altro.

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