10. Fotografie

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Tornai a casa e per tutta la notte non feci altro che scrivere di lei. Scissi del colore dei suoi occhi, del suo odore, della paura che provavo quando non ero con lei. Scrissi del suo modo di parlare della vita come se non ne sapesse nulla, di come camminava in mezzo alla gente, dei nostri silenzi, del nostro tramonto e di tutto quello che non eravamo riusciti a dirci. Fu lei a ridar colore alle mie parole. Il pensare a noi due, su quel letto, ad un chilometrico centimetro di distanza l'uno dall'altra, mi faceva sperare. Speravo che anche lei volesse quel bacio quanto lo volevo io. Speravo che anche lei, come me in quel momento, mi stesse pensando. Speravo che si sarebbe fatta sentire, anche solo per parlare. Venni travolto da quell'angoscioso sentimento esattamente come si può venir colpiti da un fulmine, ovvero dolorosamente e inspiegabilmente. Chiudevo gli occhi e vedevo il suo volto. Ogni canzone ormai parlava di lei. Ogni mio pensiero era esclusivamente rivolto a lei. Volente o nolente, m'ero innamorato perdutamente. M'ero innamorato del suo modo di essere così al di sopra di ogni cliché, della spontaneità e della leggerezza con cui faceva qualsiasi cosa, della sua totale incapacità di rientrare in un qualunque schema. Quanto avrei voluto baciarla, stringerla tra la braccia e dirle tutte le cose peggiori che un innamorato può dire, convincerla a non uscire più da quel letto, da quella stanza, perché fuori da lì non ci sarebbe stato nulla per due come noi.

Aspettai per tutta la domenica seguente una sua chiamata. Una chiamata che ovviamente tardava ad arrivare. La sua latitanza da ragazza fantasma metteva in dubbio le poche certezze che con fatica ero riuscito a costruire.

Ma sotto tutte quelle infantili speranze, stava crescendo il seme del terrore. Si stava delineando una terrificante ombra con il volto di Ginevra De Marchi. E ad ogni minuto che passava senza che lei si facesse viva, l'ipotesi che Ginevra avesse parlato diventava sempre più concreta. Sebbene quindi, da un lato nutrissi la snervante attesa che Olimpia mi chiamasse, dall'altro si profilava la paura che l'avessi persa per sempre. Ma anche se fossi stato meno impulsivo e più coscienzioso, come avrei potuto mai sapere che si trattava proprio della sorella della ragazza più incredibile del mondo?

Quel pomeriggio lo passai sotto le coperte a pensare alla grandissima stronzata che avevo inconsciamente fatto e ad un eventuale modo per rimediarvi. Il mio lato più pessimista, in occasioni come quelle, non poteva fare a meno di irrompere con prepotenza. Per una volta, la legge di Murphy non sembrava essere tanto una cazzata. Per l'agitazione, finii un pacchetto di sigarette nel giro di poche ore. Il coinquilino si lamentò della nebbia s'era formata nella mia stanza e in parte del corridoio. Io gli risposi che avevo problemi più importanti della sua salute. Mi sentivo teso come una corda di violino. Avrei voluto tanto prendere in mano il telefono e scriverle, tagliare la testa al toro e togliermi ogni dubbio. Ma la paura era troppa.

Quella notte mi addormentai con la sensazione che l'indomani mi sarebbe crollato il mondo addosso. Orribili incubi mi intrattennero durante il sonno. Mi svegliai che era già giorno da poco, fradicio di sudore e col cuore che pompava all'impazzata. Mi feci una doccia fredda e mi preparai per uscire. Un altro lunedì era arrivato. La seconda settimana in Bocconi stava per iniziare. Il giorno del giudizio incombeva su di me.

Uscii di casa molto presto, in anticipo rispetto all'inizio delle lezioni, vuoi sia per distrarmi da Olimpia, sia per il bisogno di stare in mezzo a delle persone. In metropolitana cercai di trovare un po' di conforto nella musica: Led Zeppelin, Gazzelle, The XX, Pink Floyd, Calcutta, Red Hot Chili Peppers, ma per quanto volessi trovare una sorta di consolazione, per quanto cercassi di isolare i pensieri, mi ritrovavo costantemente allo stesso punto di partenza.

Arrivai in università e presi un cappuccino alla caffetteria. Lì, mi guardai attorno, ma non riconobbi nessuno che conoscessi. Ero solo. E allora mi misi a pensare a quanto fosse triste stare da soli e capii che è per questo che le persone cercano in ogni modo di stare il meno soli possibile. Ci circondiamo di persone di cui in realtà ci importa poco solo per sentirci meno diversi, per far parte del gruppo, per sentirci parte di un qualcosa più grande di noi. Ma alla fine è nella diversità che sta bellezza, e le persone diverse come me e Olimpia non potevano fare a meno di sentirsi sole. A quel punto mi chiesi se si poteva essere soli insieme. Non riuscii a rispondermi. Non avendo poi nient'altro da fare, salii in Velodromo per l'inizio delle lezioni.

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