7. Solo

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Mi svegliai la mattina dopo. Un tremendo mal di testa mi diede il buongiorno, decretando quello che sarebbe stato l'inizio di una giornata del cazzo. Cercai di tirarmi in piedi, ma venni sopraffatto da un conato di vomito. Arrivai in bagno appena in tempo.

- Fanculo. – sussurrai a me stesso. Mi lasciai cadere sul pavimento e rimasi sdraiato diversi minuti, immobile ed agonizzante contro le mattonelle fredde.

I vaghi ricordi della serata mi galleggiavano all'interno della testa senza alcun apparente ordine cronologico. C'erano molti buchi temporali, intervalli vuoti in cui non avevo idea di cosa fosse successo. Mi ricordavo di Riccardo, del locale, della canna. Ma più di tutto il resto, mi ricordavo di quella Beatrix. Nella confusione che avevo in testa lei era l'unica certezza, l'unico ricordo indelebile. Mi passai la lingua lungo il taglio sul labbro, percependo il sapore ferruginoso del mio stesso sangue. Quella squilibrata mi aveva lasciato un bel ricordo.

Mi rialzai a fatica, la testa non smetteva di girare. Mi sciacquai la bocca, ritornai nella mia stanza e m'accesi una sigaretta. Feci giusto due tiri, poi la spensi nella tazzina da caffè che usavo come posacenere. Imboccai il corridoio arrivai davanti dell'altra camera da letto. Sbirciai all'interno: il coinquilino dormiva ancora.

Giacomo era un ragazzo come tutti gli altri, né stupido ma nemmeno intelligente. Si era trasferito a Milano da Viterbo e come me era al primo anno. Era fissato con il calcio in un modo quasi maniacale, come se non esistesse altra cosa al mondo che il calcio. Guardava ogni sera il tg sportivo e s'era fatto fare dal padre l'abbonamento alla Gazzetta.

Non sapevo nemmeno per quale squadra tifasse e nemmeno mi interessava. A parte dei piccoli disguidi, non avrei potuto volere un coinquilino migliore di lui. Nonostante vivessimo sotto lo stesso tetto, era come se fossimo due estranei. In quasi tre settimane di convivenza, non ci eravamo quasi mai parlati. Non mangiavamo insieme, non uscivamo in compagnia, non dividevamo null'altro che il bagno. Di lui mi annoiava solo il fatto che non voleva che fumassi in casa.

Uscì sul terrazzino. L'appartamento era al quarto piano di un edificio vecchio e sporco. Salutai il bambino indiano dell'edificio di fronte e lui ricambiò. Accesi un'altra sigaretta mentre un timido sole mi accarezzava le guance. Il trasferimento era stata una scelta egoista, più che una necessità. Ma fu esattamente quello di cui avevo bisogno.

Nell'estate di quello stesso anno, i miei genitori avevano deciso di separarsi. Nonostante avessero cercato di mascherare l'astio che provavano l'uno verso l'altra, ero lo stesso riuscito a percepire ogni giorno la tensione tra i due. Dietro ad ogni falso sorriso di mia madre, dietro ogni fredda parola di mio padre, dietro alle maschere che ogni mattina indossavano, io vidi la verità. Iniziai a sentirmi un ospite all'interno del posto che avevo chiamato casa per tutta la mia vita. Poi mi resi conto di quanto tutta quella storia non mi importasse affatto. Arrivai a maturare questo menefreghismo nel giro poco tempo. La tristezza iniziale aveva infatti lasciato il posto all'accettazione. Non sentii l'urgenza di dirlo a qualcuno e non avevo bisogno di parlarle. La possibile separazione dei miei genitori non mi faceva ancora soffrire, non mi imponeva ancora la necessità di sfogarmi. Ma più il tempo passava, più le cose presero una brutta piega. E mi stupii di quanto in realtà mi sentissi male.

Aspettarono che finissi la maturità per dirmelo. Mi fecero sedere al tavolo dove solitamente cenavano insieme e mi spiegarono. Mi dissero che avevano bisogno di riflette e per questo si stavano separando. Mi dissero che non dipendeva da me, che io in tutto ciò non avevo alcuna colpa. Mi rassicurarono, dicendomi che mi amavano ancora allo stesso modo e che la loro principale preoccupazione era la mia istruzione. Parlò soprattutto mia madre, Danesi annuiva soltanto. Lui si sarebbe trasferito in un'altra casa, ne aveva già trovata una in affitto. Poi scoprì che mia madre lo aveva tradito con un uomo che le dava quelle attenzioni che mio padre non era riuscito a darle in un ventennio di vita insieme. Mi arrabbiai e con il veleno in corpo l'affrontai. Le chiesi del perché mi avesse mentito, del perché aveva finto che andasse tutto bene per così tanto tempo. Mi sentii tradito, più di quanto lo fosse mio padre. Lei cercò di giustificarsi, mi chiese scusa. Non lo amava più, semplicemente non lo amava più. Ma io non capivo.

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