5. Conoscersi

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Mi ritrovai seduto al tavolo di un bistrot francese, una menù incomprensibile in mano e la ragazza più bella che avessi mai visto seduta di fronte a me.

Olimpia aveva piuttosto insistito per andare a mangiare in quel posto dall'aria così sofistica, con gli arredi in stile Belle Époque e il menù del giorno scritto su una lavagnetta. Era un posticino molto tranquillo, nascosto in un vicolo di Corso Italia, ad una decina di minuti a piedi dalla Bocconi. Non avevamo parlato molto durante la camminata. C'erano stati giusto gli abituali convenevoli, quelli che due persone si scambiano non appena s'incontrano.

Prima di iniziare l'università Olimpia aveva frequentato il liceo classico a Milano, passando tuttavia l'ultimo anno a Parigi: possedeva sia la maturità italiana che quella francese. Aveva passato il resto dell'estate nel Regno Unito, a Plymouth per la precisione, dove aveva trovato un lavoro stagionale da Caffè Nero nel centro della città. Io non aveva molto da dire: le parlai della mia scuola e della vacanza in Grecia, cercando di omettere il maggior numero di dettagli possibili. Non accennai al fatto che mi fossi appena trasferito.

Ora ci trovavamo uno di fronte all'altra. C'eravamo seduti ad un tavolino di ferro fuori dal bistrot, approfittando del sole di metà giornata. Arrivò il cameriere, a prendere gli ordini. Parlava in italiano con un ridicolo accento francese.

- Je voudrais le confit de canard, s'il-vous-plaît. – rispose Olimpia in modo impeccabile. Rimasi incantato dalla freschezza della sua voce, così armonica, leggera, perfettamente intonata a qualunque contesto. Il cameriere passò poi a prendere la mia ordinazione. Mi trovò leggermente in imbarazzo: alle superiori avevo studiato francese, ma non capivo assolutamente niente di quell'elenco. Guardai disorientato il menù, sperando d'avere una qualche illuminazione. Decisi che avrei lasciato fare al caso.

- Prendo uno di questo, grazie. – dissi indicando un punto a caso sulla lista. Il cameriere segnò tutto quanto su un taccuino con una matita spuntata e se ne andò, assicurando che sarebbe stato tutto pronto nel giro di una quindicina di minuti.

Presi una sigaretta dal pacchetto.

- Posso chiedertene una? – chiese Olimpia con una punta di timidezza nella voce.

- Certamente. – risposi. Le porsi la sigaretta e lei s'avvicinò per farsela accendere. Si risedette composta, la schiena contro lo schienale della sedia e le gambe accavallate. S'era sciolta la treccia e ora una ciocca di capelli le copriva parte del viso. Se la sistemò dietro all'orecchio con gesto fluido della mano. Fumava poggiando il filtro della sigaretta sull'angolo della bocca, ispirando lentamente la propria condanna a morte. Ed era così aggraziata in quel suo gesto così spontaneo. Sarebbe stata sicuramente l'ispirazione di un qualche poeta maledetto. Una femme fatale, una tremenda dea dell'amore, una musa impossibile, la disperazione di molti uomini. Non riuscivo a toglierle gli occhi di dosso. Lei sembrava distratta: si guardava attorno incuriosita dallo sporadico via vai di persone in quel vicolo e non diceva nulla. Mi venne in mente citazione della Thurman, in Pulp Fiction.

"That's when you know you've fuond somebody special. When you can just shut the fuck up for a minute and confortably enjoy the silence.".

Sarei rimasto ore ad osservala non far niente. E, in effetti, rimanemmo in silenzio per diversi minuti, ognuno con la propria sigaretta e i propri pensieri per la testa.

- Insomma, come mai quel libro è così importante per te? – chiesi ad un tratto per riempire quel assordante silenzio. Olimpia si voltò verso di me.  Quegli occhi stupendi s'erano intristiti profondamente.

- Era uno dei libri preferiti di mia nonna. Lei... è venuta a mancare due mesi fa. – rispose.

- Oh, mi dispiace molto. Perdonami. – dissi, pensando alla gigantesca figura di merda che avevo appena fatto. Solo io avrei potuto tirare in ballo la neodefunta nonna ad una prima uscita.

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