2. Andrea (parte I)

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Per guarire si torna alla base.
Per rimarginare le ferite si torna a casa.
Ivar era tornato a casa dopo Astrid.
Le altre donne, quelle prima di lei, non avevano mai reagito. Si erano lasciate uccidere senza dire nulla, avevano accettato che lui spezzasse i loro cuori in silenzio, lasciando le grida ai loro occhi vitrei, mentre lui godeva nel vederle soffrire così. Si sentiva appagato, viveva per quel momento.
Eppure Astrid aveva trovato la forza di reagire, di parlare, e quello che aveva detto gli aveva fatto male.
«Ti importa solo di te stesso. Non amerai nessuno quanto ami te stesso» e aveva ragione.
Ivar si amava.
Si amava da impazzire.
E non sapeva come affrontare la situazione.
All'inizio pensava che fosse  normale. Dopotutto ci vogliono nove mesi per creare un essere umano, che nasce inimitabile e perfetto in ogni singolo particolare, come può qualcuno non amarsi?

Eppure quell'attenzione per se stesso veniva ingigantita dalle parole di sua madre, dagli elogi del padre, e dai fallimenti della sorella che evidenziavano ancora di più le sue conquiste.
Ma ben presto a ciò si aggiunse l'egoismo, la vanità, uno sproporzionato narcisismo che lo rendeva quasi vuoto dentro, pieno di rabbia immotivata che se prima voleva sfogare su sé stesso, ora sfogava sugli altri.
E vedere gli altri morire, lo faceva sentire così vivo.

Prima si picchiava con le persone.
Beveva anche tanto Ivar, era uno sregolato, passava ore e ore nei bar passando da un drink all'altro. Nascondeva bene la sua dipendenza dall'alcol, che poi non è mai una vera e propria dipendenza agli occhi degli altri: l'alcol è normale, la droga no. L'alcol è normale, le sigarette no. L'alcol è normale, il sesso promiscuo no.
Ivar dopo aver bevuto adocchiava l'uomo più grande e gli andava vicino, lo insultava senza motivo fino a quando quest'ultimo non iniziava a picchiarlo.
Finiva sempre male per lui, che nel migliore dei casi aveva un labbro spaccato o un occhio nero.
Lo stavano uccidendo una volta. Era uno alto, biondo, con una barbetta incolta e rada che stonava sul viso rotondo e infantile. Gli aveva tirato vari pugni,  fino a quando Ivar non cadde per terra esausto e si lasciò prendere a calci per così tanto tempo che gli ruppe una costola. Si svegliò in ospedale, senza sapere come, e si prese una bella ramanzina dal medico che gli disse che se fosse stato poco più forte il calcio avrebbe potuto spingere la costola rotta più in profondità nel polmone e causare un pneumotorace, un collasso del polmone.
Da quel giorno era passato alle ragazze.
«Più sofisticate» diceva. E farle male era più appagante di farsi male.
E poi i loro occhi, Dio. Ivar viveva per gli occhi delle donne, per vedere il modo in cui si illuminavano una volta che si erano totalmente innamorate di lui e per risucchiare tutta la luce di questi ultimi quando le lasciava andare.

Ivar ora era a casa sua, in Danimarca, e provava a rimettersi in sesto. Abitava a Copenaghen da sempre, era quello il posto al quale apparteneva. Il freddo pungente penetrava nella sua pelle coperta meticolosamente da una sciarpa rossa, legata con cura attorno al suo collo lungo.
Il cielo era plumbeo, e si rifletteva nell'acqua dello stretto di Øresund.
La strada era ben lastricata, senza alcuna imperfezione, e Ivar camminava spedito mentre si dirigeva alla Galleria d'arte nazionale Danese.
Avrebbe chiesto di ritornare a lavorare lì.

Quando Vincent lo vide arrivare da lontano, mentre varcava la porta con quel suo tipico passo elegante sorrise, e sapeva che sarebbe tornato tutto come prima.

Ivar era partito ben tre anni fa.
«oggi vado, non so quando torno, vieni?»
Fu un cosa campata all'aria. Così.
Estemporanea. Non sapeva nemmeno se c'avesse pensato Vincent. Se l'era chiesto spesso dopo la partenza del suo migliore amico se l'avesse detto così, d'impulso, o se avesse progettato che alle 5.17 del pomeriggio del 23 Febbraio 2014 sarebbe andato da lui, mentre erano a lavoro al museo, tagliando la fila di gente che stava aspettando che lui obliterasse i loro biglietti, e gliel'avrebbe detto.
Si chiedeva anche se si aspettasse un rifiuto come risposta, o se nella sua mente lui avesse detto di sì, e avrebbero condiviso quell'avventura così come avevano fatto già in passato.
«sono tornato» Ivar interruppe violentemente i pensieri di Vincent che sorrise mostrandogli la dentatura perfetta e bianca.
«ci hai messo tempo»
Risero assieme e Ivar si liberò dalla stretta morsa della sciarpa rossa, dandola nuovamente a Vincent.
«me la desti prima di partire, è ancora integra, vedi?»
Vincent la prese e se la mise, come per sentirsi un po' più giovane per qualche istante e chiuse gli occhi. Si, sarebbe tornato tutto come prima.

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