13. linea piatta

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I nostri corpi non sono fatti per resistere. Probabilmente, nemmeno le nostre anime lo sono.
Per Sara suo padre era morto quando si sposò con Edward. Per Ivar suo padre morì nello stesso istante in cui morì lui. Quando seppe di non essere suo figlio. Mentre la madre singhiozzava, lui urlava e Sara veniva divorata dalla rabbia, suo padre se ne andò in silenzio. Se ne accorsero dopo più di dieci minuti che era morto. Il bip della macchina segnava una linea dritta, che era rimasta così, aveva continuato a suonare prima che si accorgessero di lui. Dieci minuti per rendersi conto che ormai non era più niente, se non un agglomerato di membra gettate su uno squallido letto. Sara fu la prima a notare quella linea lunga, retta, che non si alzava più, e venne risvegliata dal suo momentaneo stato di catalessi dal rumore della macchina che pareva stesse urlando in modo straziante al posto di loro padre.
«È morto»
La madre si portò una mano al petto, quasi esagerando e Ivar, ancora confuso ed arrabbiato s'alzò andando a chiamare un'infermiera.

«Non ho intenzione di restare per il funerale, voglio andare a casa dalla mia famiglia»
«Io non so nemmeno quale sia la mia famiglia» Ivar aveva un groppo in gola.
«Per me sarai sempre parte della mia Ivar. Sei stato la mia ispirazione per tutta la vita»
«Ho creduto d'esser tuo fratello tutta la vita»
«Avrebbero dovuto dircelo prima» Sara ribolliva dalla rabbia e dalla delusione, che la stavano consumando.
Ivar s'era sfogato gettando tutto quello che c'era sulla scrivania della sua cambretta in una busta, per poi tirarla nel secchio della spazzatura. Dopo averlo mancato, aveva iniziato a prendere a calci il cassonetto, con forza, immaginando che fosse sua madre e che poi fosse Alex.
Alzò gli occhi al cielo, pregando che quello che era successo con lui fosse solo un sogno.

«Ti ho amato per tutta la vita. Se avessi saputo di non essere tua sorella, ora forse saremmo assieme»
«Ed io forse ti avrei spezzato il cuore. E non avrei mai potuto sopportarlo»
«Tu non lo sai com'è»
«Com'è cosa?»
«Avere un cuore spezzato Ivar»
«Sfortunatamente l'ho scoperto prima di partire»
«Racconta»
«Non posso» s'agitò.
Gli salì un groppo in gola al solo pensiero di dover pronunciare il nome Alexander.
«Sono ancora tua sorella. Parlamene»
«Quando sarà il momento»

Sara si limitò ad annuire e ad estrarre il pacchetto di sigarette per passarne una ad Ivar e fumare nuovamente assieme. Strano come una sigaretta potesse aggiustare tutto, mettendo fine a quella rabbia che s'era scatenata, riempendo quello spazio vuoto che s'era creato tra loro. Un po' come quando ci sono quei piani sequenza nei film con le scene sfocate per colmare le mancanze, o come quando gli scrittori gettano parole a vanvera fuorviando l'attenzione del lettore e cambiando discorso, giusto per rattoppare il casino di quello che si sta scrivendo.

Non c'era mai stata così tanta gente in quella casa. Non c'erano mai state così tante persone in quel salone, che la madre puliva ogni giorno con perizia maniacale. Questa volta era meno pulito del solito, non aveva trovato il tempo di lucidare il pomello della porta, o di togliere la polvere sotto gli stipiti di quest'ultima, ma non importava. Quello che importava è che ci fosse un sacco di gente a piangere loro padre, a riempire quella casa che ormai sarebbe rimasta vuota perché la madre aveva deciso di trasferirsi con delle sue amiche in Africa, a fare volontariato. Una vita scandita dal lusso e dall'ozio poteva solo essere ripagata con fatica e carità, secondo lei. Sara era profondamente disgustata, e lo disse ad Ivar mentre erano in cucina, sottovoce, ricordandogli di quando vinse quella borsa di studio e diede i soldi in beneficenza, scatenando l'ira di quella donna che avrebbe voluto che la figlia si comprasse qualche vestito decente per non sembrare una "stracciona lesbica"

Quando anche l'ultimo se ne fu andato, rimasero solo Sara ed Ivar nel salone. Assieme al silenzio, e alla madre che si era chiusa in camera, rifiutandosi di uscire o di parlare con i figli. O meglio, con la figlia ed Ivar.

«mi passi un bicchiere d'acqua?»
«Ma stai piangendo?» chiese Ivar alla sorella (perché per lui le cose non sarebbero cambiate con lei).
«Passami quell'acqua e sta zitto»
«perché piangi?»
«Ivar che domanda è? Sono furiosa, stanca. E frustrata»
«perché non ce l'hanno detto prima?» chiese Ivar.
Sara scosse il capo.
«Perché hanno sempre considerato te loro figlio più di me» bevve «quando mamma ha detto che eri stato adottato, dentro di me speravo che poi si rivolgesse a me e mi dicesse lo stesso. E invece no. Non è accaduto. Sarò costretta a portameli addosso per tutta la vita, tu sei libero»
Pausa.

«Mi dici chi ti ha spezzato il cuore?» Sara cambiò argomento, anche se Ivar avrebbe voluto dirle qualcosa per consolarla.
«Ho quasi scopato il mio gemello»
«Che diamine stai dicendo Ivar»
«Alexander, quello del quale mamma ha parlato in ospedale. Il mio gemello, il fioraio. L'ho incontrato ad Utrecht» si portò le mani in testa scompigliandola violentemente tentando di scacciare il ricordo delle mani di Alex che si insinuavano tra i suoi capelli «ma non sapevo chi fosse. Ha portato i fiori per la mostra, e poi l'ho visto e... Ed era identico a me e credevo di aver trovato finalmente l'amore della mia vita» Ivar singhiozzava violentemente e ci mise un po' per calmarsi, e ancora un altro po' per raccontare a Sara del suo rifiuto iniziale, dell'omofobia, e del marito di Alex.
Lei ascoltava attenta come sempre e quando finì di parlare scoppiò in una risata fragorosa, incredula; per poi ritrovarsi a reprimere il groppo che aveva in gola e ad affondare la testa sulla spalla di Ivar.
«Voglio tornare da mio marito e da mio figlio» disse.
«Torni con me allora?» continuò poi, dopo essersi soffiata il naso con un tovagliolo bianco, poggiato sul tavolino nero del soggiorno. Ivar scosse il capo.
«Credo di tornare a Praga. Sai, fra tutti i posti in cui sono stato, forse è l'unico dove mi sia sentito a mio agio»

Sara ed Ivar si salutarono all'aeroporto qualche giorno dopo, nello stesso terminal ma con due voli differenti. Si abbracciavano stretti e non si staccavano l'uno dall'altro. Ivar indossava un maglione rosso, con pantaloni e cappotto neri, e teneva saldamente tra le braccia la figura esile della sorella che portava pantaloni blu e un maglione bianco, scollato, la cui scollatura era appunto coperta dai suoi capelli ricci e lunghi, nei quali passavano le mani di Ivar mentre l'accarezzava.
«perché ho come la sensazione che questo sia un addio?» gli chiese, mordendosi le labbra tinte di rosso per distrarre la gente dalle borse sotto gli occhi.
«Perché lo è, purtroppo lo è e lo sappiamo entrambi» Ivar aveva gli occhi arrossati, stava per piangere. Proprio da quegli stessi occhi blu che avevano ipnotizzato tutte quelle donne, che le avevano guardate senza lasciar trapelare alcuna emozione e non s'erano mai commossi se non di fronte a qualche quadro.

Sceso dal taxi e giunto davanti l'albergo in via Myslíkova trascinò la valigia arancione senza fatica, come aveva sempre fatto e si diresse alla reception per il check-in. Quando chiuse la porta della stanza dietro di sé si lanciò sul letto, togliendosi le scarpe con i piedi, e guardò il soffitto.
«Solo. Ancora una volta. Ancora con me stesso. Ancora con il mio amante» disse ad alta voce, prima di togliersi i vestiti e di entrare nella doccia.

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