2.1. Coprire la vergogna

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Fredrik Slekonik, di origini slave, era stato eletto a capo della città di Ubis tre anni prima, ma non aveva mai dovuto affrontare nulla di così difficile come quella conferenza stampa. Dopo essersi sistemato la giacca e il panciotto azzurrino che sbatteva contro il bianco della camicia, Slekonik si avvicinò al piccolo palco e vi salì. Dinanzi a lui sporgeva un microfono delle dimensioni di una bottiglia di plastica. Una folla di almeno una cinquantina di persone, fra cui una decina di cronisti locali che scattavano fotografie con il flash, aspettavano in silenzio che iniziasse a parlare. Slekonik si schiarì la voce, diede una deviazione ai suoi capelli biondi, poi sospirò.

«Il dipartimento minore di polizia di Ubis ha svolto tutte le accuratezze necessarie sul caso di Leon Horell. Il ragazzo, ricorderete, fu trovato senza vita nel parcheggio della nostra scuola superiore. A dare l'allarme sono stati i suoi stessi compagni. Dopo le analisi inviate nei più moderni laboratori scientifici fuori città, l'esito delle perizie specializzate è quello di rissa con ignoto».

Un cronista, vestito di tutto punto e dal mento squadrato, domandò: «Ignoto?».

Slekonik annuì.

«Vuol dire che non conosce il nome dell'assassino del ragazzo?».

«Secondo la dinamica dei fatti ricostruita dal corpo di polizia, Leon sarebbe stato attirato fuori da qualcosa o da qualcuno che conosceva e lì sarebbe stato vittima di un pestaggio da parte di qualche...mascalzone, forse un ladro che voleva rapinarlo. Forse qualcuno che voleva abusare di lui».

Una donna sulla cinquantina, con un taccuino degli appunti in mano, scelse una domanda diretta: «Una delle vostre alunne, la signorina Emily Hollington, ha espresso perplessità e interrogata ha sostenuto cose diverse da quelle che ci sta dicendo».

«La signorina Hollington ha sostenuto un solo interrogatorio».

«Ha svelato cose interessanti, secondo alcune indiscrezioni avrebbe anche fornito i nomi degli aggressori. O forse sarebbe meglio dire degli assassini».

Slekonik si esibì in una delle sue risate fastidiose. «Signora, lei sta travisando».

«Come si spiega questa accusa diretta dalla Hollington ad alcuni dei suoi compagni?».

Il sindaco Slekonik scrollò le spalle. «Come me lo spiego? Una ragazza che ha manie di protagonismo, ecco come lo spiego. Emily Hollington aveva avuto diverbi con alcuni dei suoi compagni di scuola e ha colto la palla al balzo per buttare fango su di loro e vendicarsi. Un'occasione ghiotta, non trova?».

«Ha sedici anni» fece notare la folla.

«Essere subdoli non dipende dall'età» liquidò il sindaco. «La polizia ha effettuato tutte le verifiche necessarie per appurare la verità sul caso e ne siamo sicuri: un pestaggio da parte di ignoti è stato ciò che ha ucciso il povero Leon Horell».

«Cosa ne pensa delle polemiche da parte della sua famiglia? Non credono alla versione esposta dalle forze dell'ordine? Come ha intenzione di risolvere?».

Quel dannato cronista non smetteva di fare domande scomode, ma il sindaco Slekonik non avrebbe dovuto far intravedere segni di cedimento.

«Ogni famiglia sarebbe stata sconvolta da quanto successo, che vi sia risentimento da parte loro è normale, ma è solo una conseguenza psicologica di ciò che hanno vissuto. Devono prendersela con qualcuno e prendersela con chi fa il proprio onesto lavoro è la cosa più semplice, perché pretendono che la polizia faccia di più, sempre di più. Ma quel di più, e deve essere chiaro non solo a voi, ma anche a tutti i telespettatori che ci guardano sul canale locale» il sindaco guardò dritto nell'obbiettivo della telecamera che aveva di fronte «è che quel di più è già stato fatto a più riprese. Il caso è dunque da considerarsi chiuso, ma se avremo sviluppi su chi possa essere stato a commettere un crimine così efferato lavoreremo tutti insieme per assicurargli la punizione che merita».

Lo scroscio di applausi seguì l'uscita di scena di Slekonik, che sbuffò nei confronti del suo portavoce, un tizio in giacca con baffi castani e un paio di occhialetti da dottore.

«Com'è andata, signor sindaco?».

«Lo hai visto, com'è andata. Ho dovuto faticare. Ma quantomeno puoi dire ai genitori di quei ragazzi di stare tranquilli».

A qualche chilometro di distanza, sulle note della sigla del tg locale, Emily spegneva la tv in camera sua. Era raggomitolata sul letto, in condizioni pietose, con i capelli arruffati e schiacciati sul viso, appiccicati agli occhi perché misti alle lacrime versate per Leon. Il suo amico non meritava tutto ciò e non meritava di essere dimenticato. Non dopo quello che gli era stato fatto. Non dopo quel piano di Joyce e Rick. Il sindaco l'aveva accusata di essersi inventata tutto. Ed era la cosa peggiore di tutte: essere guardata come un'approfittatrice su un reale caso di cronaca che aveva scosso la città. Ma Emily diceva la verità. Lo sapeva bene lei stessa, lo sapevano i suoi compagni di scuola che giocavano ai bugiardi pilotati per evitare di essere messi alla gogna dalla piccola comunità e lo sapevano anche i genitori di Rick e Joy, gente arricchita – nemmeno per proprio merito – che oltre a comprare il silenzio aveva anche depositato in cassaforte quel poco di giustizia. Dalla porta della camera spuntò sua madre. La signora Hollington era una donna forse un po' frivola, con ranocchi gracchianti nella testa a far da colonna sonora qualora qualcuno avesse cercato di spiegarle qualcosa, ma di certo non era una stupida e sapeva quanta sofferenza ci fosse in sua figlia.

«Posso entrare?» Emily rimase in silenzio, sua madre la raggiunse, accomodandosi sul letto.

«Tesoro, sei calata di peso» disse con tono compassionevole. «Guardati, persino le felpe che prima erano della tua misura ora ti vanno larghe, non puoi continuare su questa strada».

«Non ho fame».

«Me lo dici da un mese».

Ci fu un po' di silenzio, quel tanto che bastava per concedersi spazio a vicenda in quel dialogo folle.

«Sai, non esci da quella sera...» riattaccò sua madre. «Ti farebbe bene prendere un po' d'aria».

«Non mi sento bene».

«Non ti sentirai mai bene, se non assapori un po' d'aria fresca, tesoro. Puoi fare un favore alla mamma?».

Emily finse di mostrarsi interessata. Sua madre ce la metteva tutta per essere di conforto, ma ricadeva nella trappola di ripetere in cerchio sempre le stesse cose e non riusciva realmente ad entrarle nella testa. Per quello sarebbe servito uno psicologo, Miss Hollington non aveva alcuna colpa se non quella di essere estremamente superficiale.

«Va' a fare la spesa» le disse.

Emily quasi scoppiò in un urlo di rabbia.

«Lo so che ti sembra una richiesta particolare, ma uscire un po' ti farà bene. Giuro che ti sentirai meglio. Non dovrai andare da nessuna parte, c'è un minimarket a tre isolati da qui, in dieci minuti sarai di nuovo a casa, ma ti prego tesoro...cerca di uscire un po'».

«E dovrei uscire per andare a fare la spesa?».

«La spesa, un gelato, al cinema, dove vuoi. Ma confinarti in camera tua non lo riporterà qui».

Era bastato un riferimento a Leon per riempirle gli occhi di lacrime. Forse sua madre aveva colto nel segno. Per la prima volta.

Qualcuno Sta Per CadereDove le storie prendono vita. Scoprilo ora