Capitolo 13

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Kishin lasciò andare Nora senza minacce, ma con la promessa che si sarebbero rivisti.

Tornò al locale, aspettò la fine dell’evento, ricevette i soldi dagli spacciatori della serata e distribuì i loro stipendi. Quando il posto cominciò a sfollarsi, si sedette al bancone e si preparò uno spinello. Alcuni camerieri ordinavano i tavoli, altri pulivano i bagni. Davanti a lui una ragazza raccoglieva i rifiuti dal bancone. Kishin impilò i bicchieri e li mise nel lavello. Si infilò lo spinello in bocca e l’aiutò a lavare. Ormai li conosceva tutti quelli che lavoravano nella sua piazza di spaccio più proficua. Si asciugò le mani su un grembiule e finì di fumare su un divano. Si stese, la droga gli rilassò le membra. Non riusciva a smettere di pensare a Nora, al modo in cui le aveva premuto la pistola sotto la gonna, quando le aveva sbattuto la testa. Sembrava un ragazzo normale, ma era capace di uccidere. Le persone sole sono più predisposte a fare del male, perché non hanno nessuno da perdere. Gli esseri umani vivono non per raggiungere la ricchezza, ma per instaurare delle relazioni. Essere ricchi è il mezzo, non il fine. Quando sei pieno di soldi, ma percepisci di essere solo, non hai più interesse nel vivere.

Dopo la morte di Luca, Kishin era rimasto definitivamente solo. Aveva perso i legami e stava tentando di rafforzare quelli con la mafia, coi suoi sottoposti e i suoi superiori.
Gli mancavano persone che non aveva mai conosciuto, come la mamma, quella puttana coreana uccisa come una vacca da macello. Quella troia bambina che suo padre aveva seppellito e cancellato dal mondo.

Gli mancavano anche i posti in cui non era mai stato: com’era la Corea del Nord? Una merda, a sentire il telegiornale. Forse il suo posto era un’altra nazione, o un altro universo.

Gli mancava persino suo padre. Gli mancavano le botte atroci, il bastone da passeggio che gli finiva in bocca ogni volta che provava a dire qualcosa di sbagliato, le notti trascorse nell’armadio abbracciato a Luca.

Non si pentiva di averlo ucciso. Cianuro nel suo whiskey e tanti saluti. Il funerale era stato magnifico, Vittorio Fabbri si lasciava alle spalle un impero economico internazionale. Presenziarono alcuni tra i più potenti azionari bancari dell’oriente, la cerimonia si svolse con rito cattolico. Vestirono tutti di nero, Kishin e Luca lessero un discorso sul pulpito e lasciarono cadere fiori sulla tomba. Kishin fu un erede provetto, prese le redini della ricchezza famigliare e la trasformò. Acquisì le abilità economiche del padre, ma non si spostò mai dall’Europa. Poi arrivò l’impiego coi De Roberto e, a differenza del padre, che aveva rapporti solo laterali con la mafia, lui ne entrò a fare parte.

Per creare legami con la mafia devi saper uccidere e Kishin cominciò a dimostrare la sua abilità. L’omicidio del padre fu il primo di una lunga serie. Quando uccidi una volta, le altre sono facili. Ormai la tua anima è già all’inferno, non puoi più salvarla. Però Luca non aveva mai ucciso nessuno. Andava ancora alle superiori, Kishin voleva che continuasse gli studi all’estero. Era disposto anche a perderlo, pur di saperlo felice. Lo perse lo stesso, ma lo seppe morto.

Uscì dal locale, schiacciò lo spinello sotto la scarpa e rivolse gli occhi arrossati al cielo.


Guardò le stesse stelle che in quel momento stava guardando Nico steso sul tetto. Si era levato la fascia attorno al polso, ora una cicatrice rossastra lampeggiava sulla pelle d’oro. Dalla sua postazione vedeva le macerie della casa in collina. I suoi genitori lo avevano abbracciato nel corridoio, lontano dagli occhi del figlio più piccolo e di Atena. Gli avevano sussurrato che era stato bravissimo.

Era uscito dalla finestra di camera sua e dato che aveva lasciato la porta aperta sentì un rumore provenire dal corridoio. Era il passo di Atena, che il suo cervello aveva incorporato sin dalla prima notte. Camminò in punta di piedi, avanti e indietro, come se avesse dimenticato qualcosa. Nico rientrò nella sua stanza, una porta nel corridoio sbatté contro lo stipite. Uscì, la stanza di Mirko era semi aperta. Spiò al suo interno.

Atena era stesa sul letto, Mirko era senza maglietta e aveva allungato il braccio per farle appoggiare la testa sul petto. La lucina sulla scrivania era accesa, lui le baciò la fronte e le accarezzò la guancia. Suo fratello aveva un tocco delicato che a lui mancava. Suo fratello aveva un’anima, lui no.

-Se hai gli incubi, vieni da me. Nel mio letto non puoi fare brutti sogni- le disse Mirko, continuando a baciarle la fronte. Atena era ferma, si godeva le carezze e le attenzioni che nessuno le aveva mai rivolto.
Nico non poteva competere col cuore di Mirko.

Fu posseduto da un impellente desiderio di farsi del male.
Spalancò la porta,  Atena e Mirko scattarono seduti.

Mirko era cresciuto sotto la tirannia di Nico. Suo fratello maggiore era per lui il signore che deteneva il potere e l’autorità, le sue botte erano molto più crudeli di quelle del padre e spesso si scagliavano su di lui senza motivo, come una punizione divina inflitta per la colpa di esistere. Da bambino Mirko non guardava mai Nico negli occhi e quando incedeva in una stanza dove si trovava anche lui, tremava come un uccello caduto dal nido.

Quando i loro genitori li lasciavano soli, Nico aveva il compito di badare al minore. E allora era il terrore. Luce accesa in bagno, botte. Tavolo sporco, botte. Giochi sul pavimento, botte. Mirko si sforzava di essere perfetto per compiacere il suo padrone, ma non era mai abbastanza.

Sono solo io la tua famiglia, lo sarò per sempre. Ricordatelo, Mirko. Tu sei mio.

Mirko era un ragazzino ribelle e violento, ma davanti al fratello maggiore la sua forza si sbriciolava.
Per questo sorprese anche Nico quando si ribellò. Uno quattordici anni, l’altro sedici. Mirko fermò i suoi cazzotti prendendogli i pugni nelle mani. Non ricambiò i colpi, si limitò a bloccarlo e guardarlo negli occhi.

-Ti giuro su Dio: è l’ultima volta- disse Mirko, continuando a tenergli le braccia bloccate.

Nico gli rispose che Dio non esiste.

E adesso Nico alzò di nuovo le mani su suo fratello, gli prese la gola, lo trascinò fuori dal letto e lo colpì con un pugno sulla ferita allo stomaco. Atena cercò di separarli, ma lui la scacciò come una mosca.
Mirko gli diede un cazzotto sul naso, Nico indietreggiò, il sangue fluì sulla bocca come vino.

-Tu sei qui per me- Nico parlò ad Atena -non perdere di vista il tuo obiettivo. Sono io- la agguantò per il collo della maglia.

Mirko si frappose tra i due -Cosa c’è, fratellone? Sei geloso perché sai che nessuno amerà mai un mostro come te?- gli baciò la guancia, si imbrattò del suo sangue. Nico era immobile, le pupille sottili nel nero della sua iride. Sembrava un fantasma. Un morto del futuro tornato nel passato.

Il sorriso di Mirko era macchiato di sangue.

Il telefono di Mirko squillò: era Davide.

-Davi? Stai bene?-

-Io sto bene, ma Nora è in ospedale. Venite tutti, per favore.-

AtenaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora