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I rimbalzi del sasso si interrompono bruscamente. Un ultimo tonfo secco e cade sul fondo, lasciando solo una serie di cerchi concentrici che più si allargano, più si intersecano con quelli più vecchi, le tracce dei primi rimbalzi. Un altro sasso cadde nell'acqua, ma non rimbalza e schizzi scuri si sollevano dalla superficie, arrivando a poca distanza dai miei piedi. Sassi che sassi non sono, nient'altro che pezzi che appartengono a edifici crollati.

Sono pochi quelli rimasti.

Soffio più volte verso l'alto, cercando di togliermi un ciuffo di capelli dagli occhi; quando non ci riesco, lo porto indietro con una mano, imprecando a bassa voce.

«Mamma ti avrebbe sgridato».

La voce di Mirah è un pugno nello stomaco: vorrei risponderle a tono, ma non ci riesco quando gioca quella carta. Abbiamo perso il conto di quanti anni sono passati, dell'ultima volta che ci siamo lasciati alle spalle la nostra città nella speranza di sfuggire alla guerra.

Mi alzo lentamente, pulendomi le mani sui pantaloni. La polvere lascia un alone chiaro sulla stoffa scura. Sposto alcuni pezzi di spazzatura, buste e contenitori di plastica che si sono impigliati sugli argini, cercando un pezzo adatto a essere lanciato. Il puzzo ormai non mi dà più fastidio: è parte del mondo, come le rovine – come quella vita che non ha più senso per entrambi. Quando lo trovo, rimango a fissare l'argine di fronte a me, ma la voce di Mirah mi distrae quasi subito.

«Ci torneremo?»

«Sì» le rispondo senza spostare lo sguardo. È una promessa, gliel'ho già detto diverse volte: torneremo lì, torneremo a vedere il mare – ammesso che la prima non sia stata allagata e che il secondo esista sempre.

Mirah non aggiunge altro e mi volto verso di lei: mi sta fissando, stringendo tra le mani un altro detrito che si affretta a lanciare dietro di sé quando nota la differenza. Arriccia appena la labbra e aggrotta la fronte in un'espressione che mal si adatta al suo viso rotondo, ma scavato dal tempo e dalla fame. Muove un passo avanti con andatura incerta, poi un altro, tenendosi in equilibrio sui detriti che scivolano sotto le scarpe, finché non mi arriva vicino.

«Lo devi lanciare così» le dico tornando a voltarmi verso la pozza d'acqua che si allarga davanti a noi, scura e quasi immobile. Lo sarebbe stata, se non fosse per i lanci che squarciano il delicato equilibrio della superficie con piccole onde che si formano di continuo.

Sento il suo sguardo pizzicare alla base del collo: odio quando mi fissa in quel modo, ma non ci sono molte altre persone disposte a condividere il passatempo di lanciare detriti in quel che prima era l'Arno.

Uno scatto del polso e il sasso mi scappa dalle dita: rimbalza tre volte, poi crolla sul fondo, facendo schizzare verso l'alto poche gocce.

«Dovremmo andare, hai giocato abbastanza». Dovremmo, sì. «Talira ti starà aspettando».

Sospiro: odio quando fa così. Mi ricorda troppo nostra madre e riapre l'unica ferita che non può guarire.

Inizio a cercare un altro sasso e lei continua a parlare: «Ci aspettano due ore di cammino. O meglio, ti aspettano».

«Mh-mh». Lancio il sasso, ma quello affonda di colpo. Impreco, grattandomi la testa: non dovevo sbagliare il lancio.

«Qui non c'è niente di utile che puoi fare. E gli Immortali potrebbero arrivare da un momento all'altro. Siamo da soli, non possiamo rischiare».

Non fare questo. Non fare quello. Non rischiare, non perdere tempo. Le parole di Mirah mi risuonano in testa come una cantilena.

«Dé, va bene, andiamo. Sembra tu abbia paura di sprecare proiettili».

SuperstitiWhere stories live. Discover now