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Giovedì 15 luglio 2517. Città 4, Paese 17

Quel che ad altri fa paura per noi non è altro che un desiderio. Loro rifuggono inorriditi la morte, noi la cerchiamo.

Non c'è nessun segnale di pace o di tregua: è noi contro di loro mentre siamo vincolati a una guerra estenuante e senza fine. Milioni sono già morti, altrettanti ne moriranno. Nessuno è risparmiato.

La situazione, benché critica, adesso è di stallo. Chi vorrebbe un'altra carneficina? E per ottenere cosa? Un misero fazzoletto di terra che può essere perso nuovamente dopo poche ore?

Nessuno sa precisamente per cosa combattiamo adesso che i confini sono linee che hanno perso ogni significato. Aspettiamo, ma l'attesa logora più di un attacco imminente. Aspettiamo. Aspettiamo e basta. Non possiamo fare altro. L'unica certezza che ho è marchiata sulla pelle, S. Quella lettera che racchiude la mia identità e ciò che adesso sono: immortale. Condizione che si è rivelata più una tortura che un privilegio. E poi i numeri, 56478. Uno dei tanti Superstiti, uno dei pochi rimasti sulla Terra. Ho visto gli orrori della guerra partendo dal basso, dal gradino di soldato semplice, più per obbligo che per scelta.

E sì, rimpiango pure la vita monotona in quell'anonimo paesino di campagna di cui mi sono lamentato per anni. Morire spaventa tutti. Ma non noi: a noi fa paura vivere, il domani. Perché nessuno pensa a come possono farlo quando, ferito gravemente, ti chiedono se al morire preferisci il salvarsi.

Stringo le mani sui bordi delle pagine. Non c'è niente che possa distinguere me e chiunque abbia scritto quelle parole. Potrei essere stata io, ma tutto ciò che per adesso mi distingue non torna con quanto è stato scritto.

«Hai finito di perdere tempo? Dobbiamo andare, qui non c'è niente che ci possa essere utile e gli Immortali potrebbero essere in giro. I morti sono... inutili».

Sposto lo sguardo dal cadavere, che appoggiato com'è vicino al muro sembra che si sia seduto a riposarsi, a Elrin in piedi lì vicino, con le braccia incrociate e gli occhi fissi su di me e su ciò che stringo in mano.

«Perché? E comunque, è un diario. Era vicino al corpo, potrebbe esserci utile visto che chiunque l'abbia scritto, è uno come noi».

Ribatte sottovoce con un insulto che mi scivola addosso: mi hanno chiamato in modi peggiori.

Si china di nuovo sul corpo. Estrae uno dei coltelli dalla cintura e taglia la stoffa delle maniche: sul pallore delle braccia non spuntano numeri che potrebbero suggerire la sua identità.

«Non è uno di noi». Elrin fa una pausa, sembra voglia aggiungere qualcosa – ma ha avuto quel che tanto desideriamo è la mia ipotesi – tuttavia domanda: «Credi che l'abbia rubato?»

Alzo le spalle, lasciando scivolare il diario nello zaino aperto ai miei piedi. «Non credo che quello abbia importanza. Comunque, può essere una traccia».

«Qui non c'è niente». Si guarda intorno, controlla che davvero non ci sia niente. «Andiamo».

Alzo una mano, cercando di scacciare un fastidio dietro l'orecchio; un insetto mi sfiora le dita e non posso che tirare un sospiro di sollievo – meglio quello che la sensazione di qualcuno che mi fissa.

Come ovunque, da anni, c'è silenzio anche qui: ora sono solo le nostre voci a rompere quello della Città 34, ma a volte è il vento, a volte è la pioggia. Scavalco il palo di un lampione crollato a terra, Elrin preferisce fare il giro: si ferma a raccogliere uno dei cocci di vetro e lo stringe nel pungo prima di scagliarlo lontano. Brilla solo per un attimo nell'aria, poi cade chissà dove in un cumulo di macerie.

SuperstitiHikayelerin yaşadığı yer. Şimdi keşfedin