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Il rumore del motore mi rimbomba in testa, ma non oso aprire gli occhi, ho paura che sia tutto un sogno.

«Val».

Anche la voce di Elrin sembra provenire da un mondo onirico: mi appare così distante, così diversa dalla tonalità che ha di solito, ma io non voglio svegliarmi: io voglio chiudere gli occhi per sempre.

«Fa' come vuoi».

Apro lentamente gli occhi: oltre il vetro la distesa di nuvole grigie in cielo non sembra avere fine. Ci sono alcune protuberanze che ricordano vagamente il cibo di secoli fa.

Ha detto qualcosa?

«Cosa?» sussurro spostandomi sul sedile. La cintura stringe sul collo.

Il mondo intorno a me appare così confuso. Il cuore mi batte all'impazzata e lo stomaco si stringe all'altezza della bocca.

Stringo le mani sul bordo del sedile e le dita sembrano risvegliarsi da un torpore.

«Credevo dormissi, non mi rispondevi».

La voce di Elrin sembra volermi rimproverare di non aver fatto la scelta giusta: chiudere gli occhi equivale a lasciar fuori il mondo, a non vedere altro che il buio.

Annaspo, l'aria sembra venir meno all'improvviso mentre mi guardo intorno: mi sta fissando. Non riesco più a decifrare il suo comportamento e il non capirlo fa male: non eravamo così una volta. Più passano i giorni, meno mi sento parte di questo mondo.

«Pensavo di fare una sosta, vuoi mangiare qualcosa?»

Annuisco, più per inerzia che per reale interesse.

Sposto la mano, rilassando i muscoli delle braccia, ma la pelle bruciata si tende sotto la stoffa: è come un pizzicotto o uno schiaffo improvviso che mi riporta alla realtà.

Quando si ferma lungo strada, rimango per un attimo a fissare la diritta che taglia la valle: su un lato ci sono solo campi incolti, con scheletri di alberi e chiazze di terreno scuro, dall'altro una tratta ferroviaria il cui sistema di alimentazione è crollato in più punti. Dubito che vedrò passare un treno – sarebbe stato un segno che non siamo soli, ma non so quanto e se sarebbe rassicurante.

Elrin scende, allunga le braccia oltre la testa e poi fa il giro della macchina: per lui non sembra esserci niente di strano.

Appoggio la testa al vetro: davanti e dietro di noi il paesaggio è lo stesso. Piatto, tutto uguale. Non ho nemmeno idea di quanto manchi alla nostra destinazione. Ha detto un nome, ma non stavo ascoltando.

Quando bussa sul vetro, mi deciso a sganciare la cintura e scendere: a ogni movimento, però, mi sembra che gli arti siano più pesanti di quel che sono.

Rabbrividisco, appena fuori dall'auto. La differenza di temperatura è evidente e basta uno sguardo alla manopola per vedere che il riscaldamento era stato messo al massimo.

«Quanto manca?» gli chiedo sfregando con forza le mani.

«Mah, un paio d'ore? Non lo so» risponde alzando le spalle. «Non che abbia importanza, no?»

«No, infatti».

«Hai freddo?»

«Un po'».

Si avvicina, appoggiando il dorso della mano sulla fronte. «Non dovresti avere la febbre... sei rimasta con il cappotto per tutto il tempo, forse è per quello».

Annuisco e lui si allontana. Lo seguo a poca distanza, fermandomi a pochi passi da lui mentre apre il portellone e tira fuori il suo zaino che appoggia subito a terra, tirando fuori una borraccia; beve un sorso, poi me la passa. L'acqua è fredda, preferirei fosse insapore, ma a quel retrogusto di terra che nessun filtro costruito a mano riesce a eliminare completamente. Asciugo le labbra con il polso, il bordo dei guanti neri senza dita si bagna appena.

SuperstitiWhere stories live. Discover now