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Fuori dall'edificio, la differenza di luminosità mi fa lacrimare gli occhi: stropiccio le palpebre con le dita, poi riesco a mettere a fuoco i dintorni. Diverse persone del gruppo mi passano oltre. Ne ho contati dieci, ma ancora nessuno si è presentato – né nomi né numeri: non so niente di loro. Sono estranei e se non fosse stato per Elrin e il suo maledetto coltello, probabilmente non ci avrebbero mai trovato. La ferita fa male a ogni passo, ma è sopportabile. Stringo i denti, voltandomi verso quello che ci ha trovati che cammina a pochi passi di distanza da me.

«Dove siamo?» gli chiedo cercando di sistemare lo zaino in modo da non avere troppo peso che grava sulla gamba destra.

Il chiacchiericcio intorno si abbassa per un istante. «Città 26, Paese 17» mi risponde uno prima di tornare a parlare. Avere altre voci tutt'intorno è strano, sono così diverse da quella di Elrin. Abbiamo cercato in diverse Zone del mondo una traccia ed è solo stato un caso averla trovata.

Stringo una mano su una bretella dello zaino: non è facile passare inosservati qui. È il loro mondo, la bolla che si sono creati fino ad ora senza che né io né Elrin ne fossimo a conoscenza. È probabile che ce ne siano altri nel mondo – chissà quanti, senza una rete che possa collegare tutti.

In lontananza, tra gli alberi, si intravede una città: non è niente di troppo diverso da tutte quelle che abbiamo già visto. Nuvole basse la circondano, rimanendo immobili a mezza costa sulle colline circostanti.

«Come siete finiti qui? Non è che il tuo compagno sia stato di molte parole».

«Elrin è fatto così» gli rispondo. È lo stesso che ci ha trovati e a cui per poco non ho sparato in viso. «Ogni tanto dice più di due frasi».

«Quindi?»

Alzo le spalle. «Eravamo in macchina, ma senza una destinazione. È esplosa una ruota e abbiamo deciso di evitare la zona cittadina... volevamo capire un attimo il da farsi senza rischiare di incorrere negli Immortali».

«A volte li abbiamo affrontati anche quassù, ma di solito preferiscono cercare di catturarci in centro».

«Ah». Sposto lo sguardo su Elrin: se ne sta a testa bassa, lanciando di tanto occhiate a chi gli sta intorno: vorrei sapere che gli passa per la testa o se sapeva quel dettaglio, ma non penso che otterrò una risposta esauriente ora come ora.

Da quando siamo usciti, davanti ai miei occhi sono comparse solo costruzioni diroccate che dovevano essere abitazioni, ma il tempo se l'è mangiate, dando modo alle armature di venire alla luce. Di tanto in tanto, scheletri appaiono tra le macerie, segno inequivocabile che la guerra è passata da qui e ha messo la parola fine a chissà quante vite: non so chi fossero, quale fosse la loro storia, ma li invidio. Loro hanno ottenuto quello che io desidero. Chissà se è lo stesso per chi mi sta intorno o se loro hanno ancora la forza di andare avanti nonostante tutto.

È tutto grigio qui intorno, eccezione fatta per la sfumatura rossastra dei ferri arrugginiti che svettano nella nebbia: sono travi che puntano verso il cielo, ma che rischiano di crollare su se stesse da un momento all'altro.

«Comunque» riprende lui. «Non ci siamo ancora presentati».

«Di solito non punto il fucile alla prima persona che vedo, ma immagino che dopo... be' secoli ho perso un po' l'abitudine».

«Tranquilla, tranquilla. Se qualcuno riesce a definire la normalità giuro che gli pago da bere».

Aggrotto la fronte quando l'altra ragazza che era con lui gli tira un pugno sul braccio e gli dice cose che non capisco. Lei scatta in avanti, lui la rincorre – urlando quel che presumo siano insulti. Questa potrebbe essere la loro normalità: qualcosa che assomiglia a quel che il mondo era prima.

SuperstitiWhere stories live. Discover now