L'Essere di Un'Altra Dimensione, Parte V

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I piccoli led dei computer, disattivati dall'attacco di Dante, si riaccesero, seguiti a ruota dai monitor. Una alla volta le telecamere aprirono le loro pupille digitali sulle varie aree del laboratorio sotterraneo. Quando il mosaico fu completo, Julien cambiò impostazioni per visualizzare una singola inquadratura su tutti gli schermi, come aveva fatto in precedenza. Ricominciò a cercare la telecamera giusta, premendo ritmicamente il pulsante. Non aveva urgenza, stavolta. Il suo battere era lento, definitivo, come i rintocchi di un vecchissimo pendolo. Dante non gli mise fretta. Quando si avvicinarono all'inquadratura giusta, il suo cuore cominciò a contrarsi più violentemente, pur mantenendo un ritmo costante. Le dita si coprirono di una patina di sudore. Avevano appena superato la Cam-817, l'ultima dell'ottavo piano. Mancava solo il piano più in profondità. Quello del laser.

Cam-900, la fine della tromba delle scale. Cam-901, il corridoio, uguale in ogni piano. Cam-902, la camera di raffreddamento del laser. Quella precedente alla camera della creatura. Per un'ultima volta, il suo dito affondò il pulsante di plastica nella tastiera, lasciando che un segnale elettrico partisse per i misteriosi labirinti del computer. Di tutta la catena di eventi che quel piccolo gesto provocò nella macchina, loro videro solo il risultato: i pixel sugli schermi si spensero per un millesimo di secondo, per poi riaccendersi in una nuova configurazione: Cam-903, la camera del laser si materializzò davanti ai loro occhi.

Vuota.

"Avevo ragione." Sussurrò Dante, totalmente incredulo. "Avevo ragione!" Stavolta accompagnò le parole, non più sussurrate, con una sonora pacca sulla spalla di Julien.

"Non ci posso credere. Avevi ragione davvero." Rispose l'altro, senza nemmeno rendersi conto del sorriso che illuminava il suo volto. "È finita."

"È finita." Confermò Dante. "L'ho distrutto!"

Come due ragazzini, si trovarono a ridere e abbracciarsi. Anni di competizione e disprezzo reciproci sembravano svaniti. Quando la gioia iniziale si calmò, il dubbio di aver controllato a dovere riportò i loro occhi allo schermo. Del mostro, però, non c'era traccia. Dietro il prisma c'era un purissimo strato d'aria. Nient'altro. L'intensa luce del laser S-char permetteva di osservare con cura ogni angolo, ogni anfratto. Tutto vuoto. Eppure, lentamente, Julien fu assalito dalla consapevolezza che qualcosa che non quadrava. Attribuì la cosa allo shock delle ore passate, era normale che non si sentisse del tutto tranquillo dopo ciò che aveva passato. Però si trovò a guardare l'inquadratura con più attenzione. Un dettaglio, ne era sicuro, stonava con la cornice, nonostante non riuscisse a individuarlo. Fu Dante a sottolineare l'ovvio.

"Il laser..." Sussurrò. Era sbiancato. La gioia che poco prima colorava il suo volto era scomparsa.
"Il laser? Cos'ha il laser?" Julien si concentrò sulla lente che sprigionava il potente fascio. Ci mise fin troppo a realizzare ciò che doveva essere chiaro da subito. Dante rese parola il suo pensiero.

"Il laser è spento. L'ho spento io, disattivando la corrente." Da cui la domanda: Se il laser è spento, da dove viene tutta questa luce? Per trovare una risposta, Dante mosse le mani sui comandi della tastiera, senza distogliere lo sguardo dal monitor. La sorgente luminosa, qualunque cosa fosse, veniva da una zona fuori dall'attuale inquadratura. In direzione della porta. Dopo vari tentativi trovò una piccola cloche. La mosse in direzione della luce. La telecamera aggiustò automaticamente la luminosità, per quanto possibile. Si poteva distinguere solo una sagoma, ma era sufficiente. Dante barcollò all'indietro. Fece cadere una sedia. Muovendo incontrollatamente le braccia, cercò di mantenere l'equilibrio. "No... no... no..." Era tutto ciò che riusciva a ripetere. Quando trovò la porta si lanciò fuori.

Julien rimase in piedi, da solo. Incredulo. Osservava la sagoma con un opprimente senso di impotenza. La forma era umana. Quasi totalmente umana. Dal ventre, sorgente della violentissima luce, si allungavano ancora quelle dita tentacolari, sebbene più piccole e sottili, disposte come raggi di una ruota di bicicletta. Il loro lento ritirarsi continuava, la metamorfosi non era completa. Anche la nube era praticamente riassorbita, e ora si poteva scorgere un disegno quasi simmetrico di quelle gocce marroncine. Il volto, totalmente immerso nella luce, risultava indistinguibile, ma ciò che attirava veramente l'attenzione era il braccio. Era teso verso la telecamera, in un gesto che poteva facilmente sembrare minaccioso. L'umanoide fluttuava sul pavimento. Il suo inesorabile moto verso l'uscita continuava, ora era facile notarlo. Sta venendo per noi.

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