Capitolo 2.

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Ti prometto che ti aspetterò tutta la vita.
(Ercole – Ermal Meta)

Ermal tornò lì, dove per un certo periodo di tempo lui e Fabrizio si davano appuntamento lontano da tutti. Per parlare. Per essere amici. Per essere confidenti. Per essere loro stessi. Per essere amanti.
Continuò a passeggiare sperando di incontrarlo. Sperando che anche lui avesse provato quell'impulso irrefrenabile di ritrovarsi. Non era uno stimolo nuovo, lo aveva già provato. A Sanremo.

Sarebbe voluto andare da lui, dirgli che, fondamentalmente, lui era lì ad aspettarlo se lui glielo avesse chiesto. Lo avrebbe fatto per tutta la vita. In un solo momento era stato sul punto di cedere: durante una delle foto di rito, in cui il fotografo volle a tutti i costi che stessero vicini. Ma lui era rimasto impassibile. Lo aveva trovato indurito dalla vita.
Per il resto a Sanremo era facile ignorarsi, molto più di quello che si pensi possibile. Durante il giorno era pieno di interviste e conferenze stampa e prima della gara Ermal aveva aspettato il suo turno nel camerino.

All'ennesimo giro, si arrese e tornò alla macchina. Istintivamente cercò su Google "Fabrizio Moro". Lesse interviste, dichiarazioni, niente che lui non sapesse già, che non avesse vissuto con lui per un certo periodo. Poi posò il cellulare e partì.

Fabrizio era ancora scosso dalla conversazione avuta con quella donna. La sorella di Ermal che per tanto tempo aveva visto solo in foto, piccola, fragile, indifesa. E adesso era un donna, una madre. «Papà», il piccolo Libero lo risvegliò dai suoi pensieri. «Che hai?» chiese.
«Niente, perché?» negò, come aveva fatto con i suoi genitori ai tempi e come avrebbe fatto con i suoi figli. In tanto tempo che viveva a Roma non l'aveva mai visto, c'era buona probabilità che avrebbe continuato a non vederlo.
«Non è vero. È da quando siamo tornati che tieni il muso tipo Anita». Sorrise scompigliandogli i capelli. «Non ti preoccupare, Lì, ogni tanto penso delle cose brutte ma passano subito». Prevedendo che quella giornata sarebbe stata piuttosto lunga, disse: «Sentite, che ne dite se andiamo a mangiare a casa dei nonni?». Entrambi annuirono, così chiamò sua madre che fu entusiasta dell'idea.

Quando arrivarono la nonna accolse i bambini con un grande abbraccio, lasciandoli poi al nonno. «Fabrì, a mamma, quanto sei magro!», sospirò e sorrise. Le mamme non cambiano mai! «Ciao mamma!»
«Stai mangiando?»
«Io tutto bene, tu?»
«Da quanto tempo non mangi?»
«Potrei entrare in casa, per favore?». Sua madre assottigliò gli occhi con fare minaccioso. «Prima dimmi da quanto tempo non mangi». La voce uscì come un sussurro minaccioso. Fabrizio trasalì ritornando bambino nell'arco di tre secondi. «S-sì mamma» rispose incerto. «Sto mangiando. Lo sai come so' fatto. Quando sto in giro magno ma poi dimagrisco». La mamma non era abbastanza convinta della spiegazione del figlio, ma lo lasciò comunque entrare, dopotutto non lo vedeva da tantissimo tempo. Le era mancato.

Casa Mobrici senior era piuttosto semplice e rustica. Sul muro erano appese le foto dei figli ai diplomi, ai vari compleanni, il matrimonio dei suoi, le nozze d'argento e poi subentravano le foto dei nipoti, le foto in clinica al momento dei parti, una foto di tutti e quattro. Da quanto tempo non andava più in quella casa? Sorrise e ispirò il profumo di infanzia a pieni polmoni. Non erano vecchi, entrambi erano sulla sessantina, avevano deciso di formare una famiglia abbastanza presto e avevano avuto tre figli: Fabrizio, il più grande, Filippo e Romina. La mamma si era sempre dedicata a loro anima e corpo con amore e dedizione. Fabrizio si concentrò su suo padre che aveva Libero sul ginocchio destro e Anita sul sinistro e sorrise pensando a quante volte aveva desiderato che suo padre lo abbracciasse o anche semplicemente gli facesse una carezza. Si appoggiò allo stipite della porta e incrociando le braccia si godette la scena mentre sua madre cucinava. «Ma'», chiamò ad un certo punto. «Dimmi Fabrì».
«Le nostre camere sono ancora come una volta?»
«Sì, certo tesoro». 

Fabrizio percorse quei pochi gradini che portavano al piano di sopra. Lui e Filippo avevano sempre dormito in stanza insieme, in un primo tempo anche Romina aveva dormito con loro, poi era iniziata a diventare troppo grande e sua madre aveva protestato «È una signorina ormai, non può più dormire con i suoi fratelli!».
Entrò nella stanza. Era veramente come l'aveva lasciata lui moltissimo tempo prima. Non c'era un granello di polvere, era immacolata, era come se il tempo si fosse fermato lì, a diciassette anni prima, quando aveva lasciato casa dei suoi – o meglio quando era stato cacciato. Fece un sospiro triste poi si sedette sul suo letto. Non lo ricordava così comodo. Aprì i cassetti del comodino e trovò quello che stava cercando. Quella foto. Due ragazzini, uno più piccolo, intorno ai 18/20 anni e l'altro più grande di qualche anno, di circa 25 anni. Il piccolo aveva una faccia limpida, pulita, seppur segnata dalle avversità della vita. Aveva i capelli corti, scuri, ed era molto, molto, magro. Sorrideva poggiando il braccio sinistro sulla spalla destra del più grande. E poi c'era il più grande. Moro, con i capelli a caschetto, delle forti occhiaie ed un'espressione seccata in volto. Nonostante fosse più piccolo, il ragazzo magro lo superava in altezza. Sorrise ricordando quel pomeriggio. Girò la foto, c'era una dedica:

Ti regalo questa foto.

Ci rappresenta: io col sorriso – sempre perfetto –

E tu sempre il più rompicoglioni.Torno a Bari per l'estate.

Ci rivediamo a settembre,

E mi raccomando,

Non fare cazzate perché poi lo scopro, eh!

Sempre e solo tuo,

Ermal.

Quel settembre non era mai arrivato. Non poteva sapere cos'era successo in quel periodo, quel ricciolino lì. Sorrise amaramente ricacciando indietro le lacrime e scese al piano di sotto. 

Amici mai || MetaMoroWhere stories live. Discover now