1.1 ● MOLTO ARRABBIATA? DIREI FURIBONDA!

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In piedi accanto al bancone della cucina, versai il caffè di metà pomeriggio nella mia tazza. Le voci di mia madre e della nostra ospite, un brusio insolito e nuovo, mi mettevano una certa agitazione addosso.

Alzai gli occhi per un momento, la donna dai capelli color paglia e il maglione grigio che sembrava abbinarsi al tono della pelle dimenava le mani e scuoteva la testa. Sapevo che non era arrivata sola, ma ancora non si era fatto vivo nessun altro.

Una ragazza fece irruzione in cucina, le due donne ammutolirono all'unisono e mi arrestai anche io, con la caraffa a mezz'aria.

La nuova arrivata era concentrata a digitare su un vecchio cellulare. Indossava delle all star nere, i jeans le stritolavano le gambe mentre la felpa bianca sformata sembrava più grande di almeno tre taglie. I capelli spettinati a coprire il volto, erano rosa.

Nel silenzio della stanza smise di giocherellare, mi evitò e fece mezzo giro del tavolo. Aprì lo sportello di una delle dispense, si mosse rapida, dentro stipiti e mobili, si chinò, mormorando tra sé e sé.

Fu un pugno in faccia inaspettato: era appena arrivata a casa mia e si comportava come se potesse fare qualsiasi cosa. Strinsi la tazza calda, mossi un passo verso di lei e mi ritrovai faccia a faccia col retro del suo maglione. Sopra, disegnato male, c'era un grande occhio chiuso dentro a un cerchio e una scritta: 'Y●EL●L'.

Il cuore accelerò, in un attimo la mia testa si vuotò e la mia mano tremò.

Con tutte le migliaia di ragazzine ottuse, piene di ormoni impazziti per i cantanti, proprio una fan di quel gruppo doveva capitarmi a casa?

I denti afferrarono il mio labbro inferiore e mossi un passo indietro.

Distanza, devo mantenere la distanza.

Mentre la stanza iniziava a girare pericolosamente davanti ai miei occhi, aprì un pensile vicino a me: quello degli stracci. «Porca puttana» borbottò.

Chiusi secco lo sportello. Lei si fece indietro.

«Non te l'hanno detto che ci si presenta, in casa altrui?» la redarguii, con voce bassa e concentrandomi.

Tirò indietro i capelli, si guardò intorno come se non mi avesse nemmeno visto.

Appoggiai la tazza sul ripiano «Ehi, sono qui».

La donna nuova, che fino a quel momento si era limitata a osservarla in silenzio a occhi spalancati, si allungò verso di lei con impeto, le afferrò il gomito «Jennifer, non ti presenti?».

«Non è Jennifer, mamma! Solo Juno! E lasciami andare. Non voglio stare qui!».

La mano col telefono tremò per un momento e le iridi si mossero frenetiche, lanciò sguardi sfuggenti e sprezzanti verso ogni angolo dell'ambiente, fino a incontrare i miei occhi.

Il panico si trasformò in altro. Non riuscivo a staccarmi da quel colore verde che mi indagava nell'anima. Una sensazione nuova che camminava lungo le spalle, il collo, lo stomaco. Mi sembrava di udire una musica. O forse era solo il suono del mio battito che correva nelle vene.

Passai una mano tra i capelli e strinsi la mascella finché il sapore del sangue mi invase la bocca.

Cosa mi succede?

Conoscevo già il suo volto: il viso a cuore, le labbra piene sovrastate da un naso un po' a patata. Nelle foto che ci erano arrivate era meno espressiva e lo sguardo era annoiato, quasi apatico. In quel momento, invece, aveva un'aria decisa e, anche se indietreggiava, avevo già capito che non era una che si faceva intimorire.

Lei si liberò dalla presa della madre e corse in sala.

Oh no, signorina fangirl, non mi scappi.

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