1.2 ● QUANDO MI TROVAI IN UNA NUOVA CASA

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N.B. Gli errori grammaticali, ripetizioni di parole e modi di dire (anche nella stessa frase) sono fatti apposta per le caratteristiche del personaggio.

Mi bloccai un momento nel corridoio dove c'erano tante porte. Una era aperta e con la mia valigia davanti. Mi ci rifugiai, la chiusi a chiave, mi appoggiai al muro e sospirai.

Il tizio con l'aria da "so tutto io" mi voleva dire il suo nome!

Faccia da secchione! Mi stai antipatico!

«Sai cosa m'interessa del tuo nome?» brontolai, più o meno a nessuno.

Quella gente non la conoscevo e non avevamo niente in comune. Soprattutto io e quel ragazzo strambo e con gli occhiali, che era più grande di me. Vestito con la giacca in tweet, quella con le pezze sui gomiti e i pantaloni da ufficio.
Guardai la stanza dove ero entrata.

Per essere gennaio, c'era molta luce che entrava dalla grande finestra e con le tende che volavano al vento.

Era tutto di un bel bianco e nocciola. Sembrava di essere nella foto di una di quelle riviste di case che Rita portava a scuola. Se non ricordavo male, l'arredamento si chiamava Shaggy chic o qualcosa del genere.

Non è certamente la soffitta che dividevo a Seattle con la nonna.

Là, avevo dormito con lei fino all'ultimo giorno della sua vita e aveva sempre puzzato di cavolo e di morto.

Lì, invece, c'era profumo di fiori e lavanderia a gettoni per tutta la stanza. Quelle erano persone ricche, non c'era nemmeno da chiederlo, si vedeva. La donna che c'era in cucina, con i suoi capelli scuri, ordinati e truccata bene, anche lei sembrava una persona con tanti soldi. Curata, come tutta la casa.
Mi avvicinai a una scrivania che sembrava un tavolo da ristorante da venti persone. Forse un po' meno.

Presi un biglietto appoggiato sopra che diceva "Benvenuta a Riverview. Qui puoi fare ciò che vuoi".

Certo. Senza nemmeno un amico o qualcuno che conosco.

Al pensiero di dover fare nuovi amici mi tremarono le gambe. Già ne avevo pochi a Seattle perché la nonna non mi permetteva mai di uscire. "Le brave ragazze vanno a scuola e poi stanno a casa a studiare, non escono con i ragazzi, se no diventano delle poco di buono!" Ma a me non piaceva studiare. Era la cosa più noiosa del mondo.

Uscii sul balcone e mi appoggiai alla ringhiera. Sospirai, c'era umido e odore di alberi e terra: mi ricordò le volte che papà mi portava nei parchi di Seattle quando ero più piccola. erano poche e non le ricordavo molto bene.

Guardai per un po' la piscina in giardino che rifletteva i raggi del sole, poi tirai fuori il vecchio Blackberry, o il coso rotto di seconda mano, come lo chamava Rita. Il colore si stava staccando, ci passai sopra un'unghia e un altro pezzettino venne via. Mi sembrò di sentire di nuovo la nonna. "I telefoni servono ai ragazzi per chiamarti a qualsiasi ora!" e non me l'aveva mai comprato.

Lo stomaco si fece sentire con una puntura. Come quando a scuola saltavo la merenda e mettevo via i soldi per comprare il telefono da un compagno.

Misi una mano sulla pancia. Avevo solo bevuto latte per quattro giorni di viaggio.

Colpa della mamma e del suo stupido litigio con papà.

Lui era ancora al lavoro e lei ne aveva approfittato per andarsene.

Non mi aveva detto chi era quella gente o per quanto dovevamo rimanere lì. Non potevo nemmeno chiamarlo, perché non conoscevo il suo numero. Ma avevo quello di Rita.

[Rita siamo arrivate ma non so dove Mamma dice Florida c'è una villa gigantesca in mattoni e c'è caldo ma non c'è il mare e nemmeno le palme]

[Non dappertutto c'è il mare in Florida]

[Mi ha portato da dei tizi che hanno una casa in mezzo a un bosco e una piscina enorme]

[Che importa, tanto tu non sai nuotare]

Vero.
Grazie nonna, per avermi vietato anche le lezioni in piscina.

"Una signorina non si mette nuda davanti agli altri, soprattutto ai maschi!" diceva.

[Mi hanno dato una stanza che è un albergo ho anche la TV]

Se proprio mi va male, posso stare a guardare la TV tutto il giorno.

Girai per la stanza. C'era un'altra porta, la aprii appena per farci passare la testa.

Ho il bagno in camera! Dovrò dire anche questo, a Rita!

Come il resto della casa, non poteva essere piccolo. Le pareti erano chiare e senza muffa intorno alle piastrelle e sui rubinetti non c'era la ruggine. Sul pavimento c'era un tappeto del colore del burro di arachidi. Mi tolsi le calze e strisciai i piedi sui peletti alti e soffici. Mi fecero il solletico che mi arrivò fino alla schiena e mi vennero i brividi. A Seattle non avevo un tappeto. Mi dovevo vestire in fretta, o mi si sarebbero gelate le dita dei piedi. In quel bagno era tutto caldo.

Mi guardai allo specchio grande. Lo schiaffo che mi aveva dato la mamma sul labbro mentre protestavo per non andare via di casa aveva sanguinato per tanto, ma era diventato un piccolo graffio.

Decisi di provare la doccia. L'acqua usciva da tutte le parti, sia da sopra che dai lati e mi faceva il solletico. C'erano lo shampoo, il balsamo e il bagnoschiuma, e tutti avevano profumi che mi ricordavano i fiori degli alberi fuori.

Finito di lavarmi, presi dalla valigia qualche vestito che la mamma ci aveva sbattuto dentro, buttando all'aria tutti i cassetti della soffitta.

Almeno ha preso i miei maglioni preferiti.

Tutti quelli con i disegni degli 'Y●EL●L', che avevo fatto io a mano con i pennarelli prestati da Rita e Beth.

Anche se erano puliti, i vestiti nella valigia avevano l'odore di casa. Umido, muffa e cavolo.

Già a Seattle l'odore non mi piaceva molto, ma in quel momento, mi sembrava anche peggio.

Presi un paio di jeans e un maglione e li stesi fuori sul balcone.

Chissà, magari la puzza va via.

Mi fermai di nuovo fuori. C'erano anche gli uccellini che cantavano. Non li avevo mai sentiti prima, tranne che alla televisione.

Rientrai, mi buttai sul letto e abbracciai il cuscino morbido. Continuai a osservare la stanza. Nessuno, dopo aver vissuto nella nostra casa, avrebbe desiderato fuggire da un posto come quello.

Anche al piano di sotto c'erano dei mobili costosi. Un divano in velluto rosso e librerie. Librerie da ogni parte: sala, corridoio sulle scale e anche di fronte al grande pianoforte nero. Piene zeppe di libri. E un lampadario di cristallo splendente.

Mi sentivo fuori posto. Cosa ci facevamo io e la mamma lì?

Qualcuno picchiò alla porta. «Jennifer, vieni giù a mangiare» la voce della mamma mi chiamò dall'altra parte.
«No, lasciami stare».

«Non mi far fare brutta figura con i padroni di casa» alzò la voce.

Non mi mossi e rimasi in silenzio. Non volevo vedere nessuno. Sarei stata una settimana senza mangiare, se era necessario.

 Sarei stata una settimana senza mangiare, se era necessario

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Note Autore

Juno parla strano, lo so. Confonde le parole e se avete notato, ce ne sono alcune in corsivo che non corrispondono al loro significato ma hanno solo una leggera somiglianza. Non sono errori 🙄

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