1.22 ● IL NULLA DEI RICORDI

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Rimasi in camera fino a che le voci di mio padre, mia madre e Sharon non scomparvero.

Erano appena le nove di mattina. Non avevo dormito tutta la notte, eppure il sonno non arrivava.

Uscii di casa e mi misi a vagare nell'aranceto, lasciandomi immergere dal profumo delle foglie e della terra che per quel periodo era fresca e quasi asciutta, il sole sovrastava di poco le chiome verdi.

I miei pensieri sulla fangirl non erano più al loro posto, mi sentivo a soqquadro, come una casa rovistata da ladri.

Ripensai alla lezione della sera prima. L'avevo sorpresa a cantare una canzone di EL sulla ritmica di una poesia greca.

Non ci avevo mai fatto caso nemmeno io. Era impossibile che avesse un tale orecchio musicale, eppure, lo stava facendo di fronte ai miei occhi. Ero così colpito che non me l'ero sentita di biasimarla. La ragazzina stava dimostrando una logica tutta sua di collegamento delle cose che le succedevano intorno. E sapevo che le canzoni di EL erano tutt'altro che innovative, malgrado il suo continuo, pretenzioso vizio di rovinarle, per renderle uguali a lui. Odiose, come lui.

Lo sapevo, nell'altra scuola non hanno capito niente.

Ma ero io che volevo la sua attenzione, e per ottenerla avevo tentato di imbrogliarla; invece lei mi aveva preso in contropiede.

Aveva alzato il capo, sul suo viso c'era un'espressione sconosciuta, un sorriso equivoco. Mi si era mosso qualcosa nell'intestino e per un attimo avevo adocchiato la porta del bagno.

«Io sto attenta, prendo un bel voto, e tu guardi con me un concerto di EL.»

Una parte di me sapeva che c'era qualcosa di sbagliato. Cos'ero disposto a dare, in cambio, da quel cervello vagante fissato su quella maschera? Ero pronto a barattare i miei nervi?

Rivissi di nuovo quella sensazione: la stanza che girava, la mia pelle che si trasformava in una gabbia per contenere dentro di me un'esplosione di vittoria e, nell'antro più buio della mia mente, un grido di successo, una voce che non era la mia, ma che alimentava la mia collera.

Mi appoggiai a un albero col braccio e respirai regolarmente.

Guardare EL. Per catalizzare la sua attenzione, dovevo cedere a EL, un egocentrico che si credeva davvero Dio.

Se solo avesse saputo la verità.

Potrei dirglielo. EL cadrebbe come una sequoia vecchia. E forse, anche io.

Scacciai quel pensiero premendo le dita sulle tempie e strinsi gli occhi.

Li riaprii e mi guardai intorno. Le nubi basse riflettevano lo scarlatto di un cielo che si avviava all'oscurità.

Un colpo al petto più forte degli altri mi fece indietreggiare, persi l'equilibrio, mi aggrappai d'istinto al tronco vicino. Abbassai gli occhi verso i miei piedi a penzoloni sul vuoto, le gambe intorpidite, pressate sul ramo di una quarantina di centimetri di diametro.

Ma quando cazzo ci sono arrivato qui?

Boccheggiai, affamato d'aria, una decina di volte, costretto da un collare di panico che da diverso tempo non sentivo. Quando mi liberò, lasciai andare anche le lacrime.

Attesi che il tremore fosse passato e, appiglio dopo appiglio, scesi dall'albero.

Trascinai i piedi sulla terra, lento, e quello mi diede il tempo di recuperare il presente.

Non è stato niente, in fondo, non è successo nulla.

Ma era proprio il nulla dei ricordi che avevo perso in quelle ore che mi faceva venire la nausea. Nessuno mai, mi avrebbe raccontato cos'era successo da metà mattinata fino a quel momento.

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