1.3 ● QUANDO MANGIAI SU UN PIATTO DI LEGNO

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N.B. Gli errori grammaticali, ripetizioni di parole e modi di dire (anche nella stessa frase) sono fatti apposta per le caratteristiche del personaggio.

Dovevo essermi addormentata. A mezzanotte, mi svegliai con il fuoco nella pancia. Avevo troppa fame.

Mi vestii e uscii dalla stanza in punta di piedi.

Mi fermai a metà scala. C'era una musica che arrivava dal piano di sotto.

Ma non dormono mai, qui?

Le luci erano spente e tutto era appena illuminato dalla luna. C'era una musica che arrivava dalla sala. Mi affacciai prima di scendere incuriosita, sembrava quella di tante campanelle. Allungai il collo ancora, era un pianoforte, la persona che stava suonando non si era accorta di me.

Scesi più silenziosamente che potevo gli ultimi gradini ed entrai veloce in cucina, aprii di nuovo un mobile e ci guardai dentro.

La luce si accese, il mio cuore accelerò di un paio di battiti e sbattei la testa dentro alla credenza dove mi ero infilata.

«Vuoi mangiare?» domandò la voce con delicatezza.

Mi alzai in piedi, il tipo del pomeriggio era appoggiato alla porta, a braccia e caviglie incrociate, le sopracciglia sollevate e un mezzo sorriso sul volto.

Feci finta di niente e chiusi lo sportello «Se trovo qualcosa, sì!».

Le sue sopracciglia si mossero verso il centro, si rimise dritto e fece una smorfia con le labbra. «Se trovassi, non trovo. E comunque è pieno di cibo».

Col dito indicò un cesto pieno di arance, proprio di fianco a me.
Mi si ribaltò lo stomaco «E quella la chiami roba da mangiare?».

Lui si avvicinò e ne afferrò una «Scusa, allora tu cosa intendi per roba da mangiare?».
Incrociai le braccia «È ovvio che uno spuntino non è un'arancia. Un panino con burro di arachidi e formaggio è roba da mangiare.».

Mise una mano sulla bocca e si piegò in avanti come se avesse dovuto vomitare e con l'altra mi indicò «Mi stupisco che tu sia così, se davvero mangi quelle porcherie».

Non c'era freddo, ma mi sentii il viso gelare. Ecco, dovevo anche vivere con uno che mi prendeva in giro. Tirai su col naso per rimandare indietro un pizzicore agli occhi e mi voltai, sperando che sparisse dalla mia vista, anzi dal mondo intero. Mi allontanai e ripresi ad aprire gli sportelli dei mobili appesi, e cercai di non pensare alla sua frase. «Di come sono io non ti deve interessare». Aprii un altro armadietto «Ecco. Delle galline di riso soffiato. Sono finita in una famiglia di tizi che mangiano strano!».

«Non mangiamo strano, mangiamo sano» la sua voce era vicina, dietro le mie spalle, e un brivido mi passò per la schiena.

«Verdura, frutta, carne, pesce, pane, pasta. Quelle si chiamano gallette, non galline. Niente junk food. E io sono allergico alle arachidi, per cui scordati il burro di arachidi, se non mi vuoi sulla coscienza!».

Mi allontanai «Allergico alle arachidi, certo! Quale secchione non ha una serie di allergie? Arrivate già arredati quando nascete?».

Lui non mi rispose, andò verso una specie di armadio e lo aprì.

«Cavoli, è un frigorifero» esclamai. Uno di quelli illuminati da dentro e con tanti ripiani, pieno di cibo, tutto ordinato.

«Corredati, non arredati!» mi corresse di nuovo.

Chissà se c'è un market qui vicino.

Il burro di arachidi stava diventando un'idea migliore di un coltello, o un altro tipo di arma, per uccidere quella faccia da rompiscatole che mi aveva appena presa in giro per il mio corpo. «Senti, tagliamo corto, c'ho fame. C'è qualcosa qui? Patatine? Uno spuntino?».
Mi ignorò, aprì un cassetto e prese un piatto di legno rettangolare.

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