1.24 ● MI ERA MANCATA

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Ero in cucina e fissavo il sandwich al tonno, sicuro di aver perso la scommessa e di dover guardare un intero concerto degli Y●EL●L. Accidenti a internet. Le avevo preparato la merenda, pur di farla tacere e distrarre.

Il rumore della chiave che si infilava nella serratura mi fece sobbalzare, dovevo essere pronto a tutto. Aspettai che sbucasse in cucina, invece, lo sbattere della porta seguito da pedate frettolose e leggere, l'assenza di altri rumori, mi fece scattare subito verso la sala. Uscii che lei era già a metà scala: la inseguii e l'afferrai per il polso. L'intera manica e parte del maglione, che doveva essere azzurro pastello, era sgualcito e macchiato di grigio. Addosso aveva odore di polvere stantia e carburante. Non si voltò al mio tocco.

Una scossa elettrica mi fece inquietare e un campanello di allarme suonò in testa. «Fangirl, cos'è successo?» Strinsi la mano, avrei voluto vedere di più, capire quella situazione strana, ma non volevo essere aggressivo come Sharon e nello stesso tempo non sapevo che parole scegliere. «Hai inciampato e sei finita in una pozzanghera?» azzardai, ma una parte di me temeva ben altro.

Non si voltò. Scosse la testa, i capelli erano spettinati, raggruppati a ciocche.

«Sì. Sono goffa. E lasciami, devo andare in camera.» I muscoli del polso si muovevano nervosi sotto il mio palmo.

Questa cosa non è normale.

«Vieni in cucina? Ti ho preparato qualcosa da mangiare.» Forse il pensiero di mettersi a tavola, l'avrebbe fatta sciogliere un po'.

Si girò appena di profilo, la guancia era arrossata. Lanciò un'occhiata verso la porta e sembrò esitare, il suo braccio tremò nella mia presa. Infine, lo scosse con furia, fino a che non lo lasciai.

«Ho bisogno di andare in bagno» gridò, ma la voce le tremava.

Rimasi a osservarla per le scale. Forse erano singhiozzi di pianto, quelli che l'accompagnavano. Tutto terminò con il botto della porta che si chiudeva.

Dovrei seguirla?

Dall'ostilità che mi aveva mostrato, di sicuro non avrebbe parlato. Avevo capito che con me si mostrava sicura e spavalda, perché mai avrebbe dovuto farlo? Io per lei ero una sfida a viso aperto, non certamente il confidente di quando le cose andavano male, e da com'era ridotto il maglione, quel giorno qualcosa era andato storto di sicuro. D'improvviso, mi trovai a desiderare di averla vista puntarmi un dito contro il naso trascinandomi in camera per guardare il suo cantante presuntuoso.

Fino a sera non feci altro che fissare i tasti del pianoforte senza nemmeno sfiorarli. L'idea che quel comportamento fosse causato da qualche problema scolastico era un chiodo conficcato tra i miei pensieri, in bella vista.

All'ora di cena entrò in cucina, una zaffata di fragola riempì i miei polmoni. Indossava la tuta da ginnastica baggy style color rosa, aveva i capelli puliti e gli air-pod alle orecchie. Stava canticchiando e si mise a sedere trascinando la sedia.

Sharon la fulminò con lo sguardo, lei alzò la testa e guardò mio padre, che la stava fissando serio. Si portò le mani alle orecchie e levò gli auricolari.

Lui scosse la testa «Juno, abbiamo poche regole in casa, ma due di quelle sono che non si ascolta musica a tavola, ma si parla di quello che è successo durante la giornata. L'altra è che si solleva la sedia, così come si cammina in pantofole. La signorina Scarlett lavora sodo per tenere il parquet lucido. Ti piacerebbe se qualcuno ti rovinasse qualcosa a cui hai lavorato tanto?» La sua voce autorevole e ferma ebbe effetto su di lei, che chinò la testa.

Stette in silenzio qualche secondo, poi, esordì «Scusa, David, ho capito. Non lo faccio più.»

Sharon guardò mio padre a bocca aperta, la sua pelle grigiastra aveva preso colore e le rughe erano più tese del solito. «David, hai messo Jennifer al suo posto!»

Pink SapphireWhere stories live. Discover now