Prologo

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San Francisco; 2013


Mio padre mi ha sempre consigliato di stilare una lista delle cose più belle che mi sono capitate di recente, per fare un bilancio della mia vita e capire se sono realmente felice o no.

Quando ero bambino, non dovevo rifletterci più di tanto: da piccoli ogni minima cosa è un miracolo. Così un giocattolo nuovo, un dolce bacio che la mamma mi lasciava tra i capelli prima di andare a dormire, una costruzione ben riuscita con i LEGO, un gelato in un pomeriggio afoso e una cioccolata calda in uno gelido erano i punti che menzionavo con più frequenza, con un perenne sorriso sulle labbra.

Dopodiché, una volta cresciuto, il suo nome era diventato sinonimo di "felicità", per me. Per cui un "Pete, la signora Sullivan ti ha invitato a stare un pomeriggio da lei", un "Celeste ha chiesto di te", un "Pete, c'è Celeste alla porta" erano le frasi pronunciate da mia madre che preferivo decisamente alle altre.

All'inizio mi ero categoricamente rifiutato di farci amicizia: non avendo né fratelli né sorelle, sono presto diventato un bambino abbastanza socievole, ma i miei amici erano solo ed esclusivamente maschi. Guardavo con astio al genere femminile: tutte quelle bambine fissate con le bambole e le principesse... Eppure, nonostante la avessi primamente respinta, a sua madre piaceva raccontarci sempre che lei non si arrese, e che io le concessi subito la mia totale attenzione non appena mi fece notare di seguire i Pokémon. Credo che esista anche un video di quell'incontro.

Lei era diversa. Era creativa, spumeggiante, allegra, simpatica... È sempre stata una stronza - su questo non ci piove -, però con me non era mai completamente stronza. Sapeva quando avevo bisogno d'affetto, sapeva quando abbracciarmi, quando lasciarmi il mio spazio, quando farmi una lavata di testa... Lei sapeva capirmi. Sapeva di me. Sapeva che gusti di gelato preferivo. Sapeva che, quando mia o sua madre preparava una pizza fatta in casa in una teglia rettangolare, a me piacevano più le fette ad angolo che quelle centrali senza cornicione, e me le lasciava mangiare tutte, anche se lei stessa adorava i cornicioni croccanti. E allora li dividevo con lei, e il sorriso di gratitudine che mi rivolgeva compensava quella mancanza. Sapeva che, quando giocavamo a nascondino, io mi nascondevo sempre nello stesso, identico punto, ma faceva finta di non saperlo e di cercarmi ogni volta. Sapeva che adoravo guardare i cartoni animati a testa in giù sul divano, e lei mi imitava e rideva, sebbene le andasse il sangue alla testa e poi cominciasse a girarle.

Parlavamo spesso del futuro, anche da piccoli, e non riuscivamo a immaginarcelo separati. Eravamo una cosa sola. Eravamo in simbiosi. Lei era dov'ero io, e io dov'era lei. Arrivai addirittura a trascorrere più tempo in sua compagnia che con i miei genitori. Eravamo due castagne custodite dallo stesso riccio. Il problema è sorto quando il riccio è maturato ed è caduto dall'albero, si è aperto e ci ha fatti precipitare distanti, lontani, separati. Ed è stato allora che qualcosa si è rotto, si è spezzato. Non so quando, con precisione, ho iniziato a provare qualcosa per lei che andasse al di là dell'amicizia e dell'affetto, ma è inevitabilmente accaduto. In fondo sapevo di poter correre questo rischio, ma me ne sono infischiato. Sarebbe stato come evitare di fare un bagno a mare per paura delle meduse, sarebbe stato come vivere con il terrore di morire. Se devo essere sincero, non ti nascondo che credo ancora che una piccola - un'enorme - parte di me sia morta, quando se n'è andata.

Sì, so cosa stai per dire: "Ma non sei stato tu quello a essere andato via? Per ben due volte?". E hai perfettamente ragione. Ma la prima l'ho fatto perché ero troppo giovane, ed era impossibile sottrarmi al volere dei miei genitori. La seconda l'ho fatto perché sapevo benissimo che lei non c'era più, anche se era ancora lì. Perché se ne sarebbe andata. Perché ero talmente cotto di lei, che mi era anche balenata in mente l'ipotesi di seguirla, di andare con lei, di abbandonare tutti gli studi e quello per cui stavo faticosamente lavorando, per lei. Perché ero troppo cosciente dell'immensità del sentimento che provavo per lei, per non rimanerne terrorizzato. Perché ero diventato dipendente da quella ragazza. Perché sorridevo solo se era anche lei a farlo. Perché ero felice da far schifo. Perché non riuscivo a guardare nessun'altra senza fare paragoni. E nessuna - nemmeno una - reggeva il confronto con Celeste. E la odiavo per questo, perché l'amavo oltre ogni misura. E mi terrorizzava.

Credevo di esserne uscito, quando ci siamo persi di vista per tutti quegli anni, la prima volta. Ma l'amore non è come una videocassetta o un dvd: non lo puoi mettere in pausa quando ti pare. L'amore è come uno di quei vizi che non sai toglierti, come quando ti riproponi di smettere di fumare, ma poi la aspiri sempre, quella boccata di sollievo, e "Giuro che questa è l'ultima", dici, ma non ci credi neanche tu.

Celeste è stato l'uragano che mi ha stravolto l'esistenza. Perché, quando ami così tanto e per così tanto tempo, non te ne liberi più, di quella persona, di quegli occhi, di quel sorriso, di quelle parole che ti ha sussurrato forse per gioco, ma a cui tu hai sempre creduto. Celeste Sullivan è il tarlo che mi ha fottuto cuore e mente, e questa è la storia di com'è stata capace di farlo.

Celeste - Lasciati trovare [SEQUEL]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora