0.6 Peter

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"And now all this time is passing by,
But I still can't seem to tell you why
It hurts me every time I see you
Realize how much I need you".

San Francisco; 2013

Sai cos'era che non capivo? Che non ero proprio capace di spiegarmi? Il fatto che fingesse di non conoscermi. Di non avermi mai conosciuto, quando invece era chi, probabilmente, mi conosceva meglio di chiunque altro al mondo. Mi sentivo come se mi avesse strappato il cuore dal petto e ci avesse marciato sopra fino a ridurlo in poltiglia. Tuttavia, stupidamente speranzoso che mi stesse solo prendendo in giro, non rinunciai all'impegno che avevo preso, e mi diressi comunque in palestra per quel cavolo di orientamento. La preside era particolarmente esaurita, quel giorno, e continuava a ripetere senza sosta la frase seguente: "I miei nervi! Oh, i miei poveri nervi! Roger, smettila di armeggiare con quel microfono e pensa ai miei poveri nervi!" prendendosela con il vice-preside, la cui unica colpa era stata quella di candidarsi per quel ruolo. Non ridere! Guarda che aveva davvero una voce da trans/gallo con un fischietto in bocca! Io me ne stetti in piedi accanto ad altri ragazzi e ragazze lì vicino, e, mentre ero impegnato a non fare niente e a guardarmi attorno chiedendomi quando la sala si sarebbe finalmente riempita, la pazza mi affiancò e mi riservò un'occhiata truce.

"Qual è la tua funzione?" mi domandò, con un sopracciglio all'insù e le braccia conserte, mentre Roger le faceva aria con un foglietto.

La fissai confuso, non capendo cosa volesse da me, e lei sembrò spazientirsi ulteriormente. Alzò gli occhi scuri al cielo e diede un poco garbato schiaffo al vice-preside, sul braccio che stava scuotendo su e giù per rinfrescarla, dicendogli di smetterla perché le stava spettinando tutti i capelli - che erano di un biondo strano, ma certamente tinti. Me ne stetti zitto, non sapendo cosa risponderle - soprattutto perché non avevo ben compreso neanche la domanda, tanto per essere chiari - e lei si stizzì maggiormente.

"Dato che sei un po' tardo, mi esprimo in altri termini, per fare in modo che tu capisca: che ci fai qui, statico come un baccalà, senza fare nulla?" si informò, irritata, inchiodandomi con uno sguardo di fuoco.

"Sono una delle guide" ribattei allora, con ovvietà, fissandola come se fosse stata lei quella "un po' tarda", visto che mi aveva posto un quesito tanto imbecille.

Mi fulminò con gli occhi un'ennesima volta, dall'alto del suo a stento metro e cinquanta, e sospirò drammaticamente, portandosi il dorso della mano destra alla fronte.

"E perché, diamine, non hai un cartellino? Roger! Perché questo ragazzo non ha un cartellino?" si accanì contro il suo aiutante, e lui non se lo fece ripetere due volte, perché sparì presto dietro una porta laterale per andare a procurarmene uno.

La signora stramba mi esortò a salire su un piccolo palco che era stato allestito per l'occasione, e io seguii le sue istruzioni, non volendo fare la fine di Roger. Quest'ultimo era un ometto anziano basso e robusto, calvo e dal curioso pizzetto nero, con degli occhiali di un rosso acceso inforcati sul naso ricurvo. Perché si facesse trattare come uno zerbino da quella donna... non saprei dirti. Tornò poco dopo, con in mano una targhetta adesiva con su scritto "Tour Guide" in piccolo in basso a sinistra, e un pennarello indelebile nero, consigliando di scrivervi il mio nome e cognome sopra. Usai il retro del cellulare come base e feci come richiesto, per poi azzeccarmi lo sticker sul petto, all'altezza del cuore. Intanto la palestra stava iniziando a popolarsi, e vidi persino Mike in platea. Gli feci segno con gli occhi e con il capo di andarsene, e quel bastardo mi mandò scherzosamente un bacio volante e sollevò i pollici di entrambe le mani. Al che lo spedii a quel paese e lui scoppiò a ridere fragorosamente. In quel momento la matta raggiunse noi ragazzi del secondo anno sul palchetto e ci si pose dinnanzi, incominciando un infinito e interminabile discorso su quanto la Princeton fosse una scuola prestigiosa, e su quanto importante e significativo fosse il progetto di accoglienza a cui lei aveva dato il via quello stesso anno. Rimasi immobile e in piedi per tutto il tempo, ad annoiarmi a morte, con un mal di schiena lancinante, lanciando occhiate indiscrete al pubblico, ma non la vedevo da nessuna parte. Forse ciò dipendeva anche dal fatto che un tizio enorme mi si era posizionato davanti e mi ostruiva la visuale. C'era un odoraccio di sudore non indifferente, e l'aria viziata e di chiuso - unita al vociare delle matricole - mi aveva provocato un incredibile mal di testa. A quel punto mi arrivò un messaggio di Mike e, senza farmi notare, iniziai a intrattenermi scambiando SMS con lui, mentre Roger, con quella sua debole vocina - il totale opposto del vocione della preside -, elencava una serie di nomi che mi parve interminabile. Il messaggio di Mike recitava - e cito le testuali parole: "Cazzo, sono seduto vicino ad una con le tette enormi! È il giorno più bello della mia vita. Comunque non vedo la tipa dai capelli color cagata di unicorno da nessuna parte". Eh, lo so, ma conosci Mike... Io ormai ci ho rinunciato e mi sono arreso: dobbiamo tenercelo così com'è, che ci vuoi fare. In ogni caso, mi distrassi a tal punto - tra una risata soffocata e un'altra mascherata da una finta tosse -, che, quando un'ombra mi si stanziò di fronte, a malapena lo realizzai. Non rammento neppure cosa disse - non la sentii proprio. So solo che, non appena udii la sua voce, mi prese il panico. Cominciai a sudare freddo e andai praticamente in tachicardia. Regolarizzai il respiro, ed ebbi solamente il coraggio di connettere gli occhi ai suoi per pochi secondi - giusto il tempo per vederglieli sgranare per lo stupore -, perché poi mi salì il cuore in gola e feci la cosa più idiota che avrei potuto fare: svignarmela. Contieni i commenti, grazie. Come dicevo, percorsi a grandi falcate i vari corridoi e, successivamente, i viottoli del campus, diretto non sapevo neanche io dove, ma sentire la sua voce dietro di me richiamarmi mi spingeva ad aumentare il passo per seminarla. Alla fine mi ritrovai in segreteria, dopo aver spalancato con poca eleganza la porta e aver fatto sobbalzare la malcapitata segretaria, e mi tolsi il badge dal petto, gettandolo sulla scrivania. Ho cambiato idea, comunicai alla donna anziana che vi era accomodata dietro - in riferimento alla richiesta che le avevo porto di essere una delle "guide turistiche" e, principalmente, di essere il tutor di Celeste -, dopodiché girai i tacchi e me ne andai. Avevo cambiato idea perché non era vero quello che predicavo in ogni dove. Non era vero che stavo meglio, che mi era passata. Era un sentimento, non la febbre. Era amore, non un'infezione passeggera. Come potevo liberarmi di lei, se aveva piantato le radici nel mio cuore? Non era vero che l'avevo dimenticata, e che anche il solo vederla non mi faceva più effetto. Non era vero che me ne fregavo altamente di lei e che poteva fare quello che voleva, perché tanto a me non importava un fico secco. Come potevo restare indifferente, quando già solo il fatto che si fosse tinta i capelli di quel rosa non ben definito mi causava delle fastidiosissime farfalle nello stomaco? Come potevo pretendere di convincere Mike del fatto che per me lei non valesse più niente, se io per primo non ci credevo nemmeno un po'? Mi sentivo stupido, perché negavo persino a me stesso qualcosa di innegabile, tanto che era evidente: non ero ancora cotto di Celeste Sullivan. Ero ancora irreversibilmente innamorato di lei. Ti risparmio la scenata che Mike mi dedicò quella sera stessa, e i corrispettivi spintoni che mi diede, tentando di farmi rinsavire. La medesima sera, confinato in camera mentre lui era andato a chissà che festa alla quale io mi rompevo di recarmi, mi persi a strimpellare canzoncine senza senso, finché non mi persi a osservare il vuoto, rendendomi conto di essermi perso già anni prima, quando avevo perso lei. Mi mancava così tanto, maledizione, Jane. Stavo male. Ma male seriamente, quando la vedevo così diversa da come la ricordavo, dalla persona di cui mi ero innamorato. Quando la vedevo così estranea, quasi come se fosse diventata un'altra. Quando il mio cervello decideva di funzionare e mi faceva notare che era troppo strano, il fatto che lei non si ricordasse per niente di me. Mi mancava. Mi mancava lei, mi mancava un pezzo. Si è presa la parte migliore di me e non me l'ha mai restituita. Odiavo la persona che ero diventato a causa sua. Non volevo che avesse tutto quel potere su di me. Non volevo che il mio umore, le mie scelte, la mia vita dipendessero da lei. Soltanto ed esclusivamente da lei. La mia frustrazione si tramutò in musica, quando le mie mani si animarono di vita propria e tradussero le mie emozioni in note. E suonai, suonai armonie senza senso, suonai melodie completamente orribili a sentirsi, fino a che i ragazzi delle altre stanze non vennero a lamentarsi per schiamazzi. Allora smisi, per non dar loro fastidio, e iniziai a trascrivere su carta il fiume di pensieri che straripava nella mia testa. La odiavo. La odiavo perché non mi lasciava in pace. La odiavo perché non si ricordava di me. La odiavo perché per me lei era tutto e per lei io non ero niente, non se ne fregava un cazzo di me, lei. La odiavo perché io avrei dato la vita per lei, ma lei avrebbe fatto lo stesso? La odiavo perché non avevo fatto che pensare a lei notte e giorno negli ultimi anni, anche quando dicevo a Mike di averci messo una pietra sopra, ormai, e di non star neanche più sperando che si iscrivesse alla Princeton. Ma quando mai... Io una pietra sopra non sono mai riuscito a mettercela. Neppure ora, probabilmente. Non sono manco capace di reggerlo, il macigno con il quale dovrei coprirla. Non che le cose che sono successe possano mutare, nel caso in cui vi dovessi apporre una copertura. Perché questo sarebbe, poi: una copertura, niente di più. Oddio, io la odiavo a morte. La odiavo a morte perché vivevo di lei e sentivo di morirne. La odiavo perché la amavo. Di un amore immenso, di tutto l'amore che potevo offrirle. Perché io da mia madre non ne avevo mai ricevuto e mai gliene avevo dato, e lei era, di conseguenza, l'unica donna della mia vita a cui io tenessi così sconfinatamente. Ma forse ero io il problema. Sono sempre stato io il problema. Forse ero io quello inamabile, quello difficile da amare. In fondo nemmeno mia madre l'ha mai fatto. E non lo so, Jane, se Celeste mi abbia mai amato, a questo punto. Mi cullavo nell'idea che il mio amore sarebbe bastato per entrambi. Che deficiente. Ero e sono un grandissimo deficiente. Se non fossi stato così accecato dal sentimento ingestibile che provavo nei suoi confronti, l'avrei capito prima. Che io mi stavo innamorando di lei sempre di più ogni giorno che passava, mentre l'unica cosa di cui si stava innamorando lei era la sua libertà. E nemmeno io avrei mai potuto convincerla a lasciarla in secondo piano per... beh, per me. E io ce l'avevo, ce l'avevo il sentore che, cazzo, mi avrebbe spaccato il cuore in mille pezzi ancora e ancora e ancora. La cosa che mi fa più rabbia è che glielo avrei lasciato fare volentieri, ancora e ancora e ancora.

"I hate you, I love you,
I hate that I love you.
Don't want to, but I can't put
Nobody else above you".

N/A

Wow, non pensavo che il capitolo precedente avrebbe riscosso tanto successo! Ma grazie, ragazze, siete dolcissime! E, cavolo, siamo già a dodicimila visite!! Sono così contenta, che ho deciso di regalarvi questo pezzo di anima. Perché Peter è sempre un mio pezzo di anima, mannaggia.

Comunque dato che alcune di voi me l'hanno chiesto, rispondo direttamente qui: io ho diciannove anni >.< (il 99 nel nickname è il mio anno di nascita :P)

E... Beh, nulla. Spero che il capitolo vi piaccia. Non vedo l'ora di farvi leggere il prossimo!

Un bacio, e a presto

Rita x

Celeste - Lasciati trovare [SEQUEL]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora